PREVIDENZA L’alternativa di Franco Modigliani, con Marialuisa Ceprini
«La mia riforma delle pensioni»
Per il Nobel e la professoressa del Mit, il progetto del governo è«irresponsabile»: lascia alti i contributi, crea più rischi ai lavoratori e accresce gli oneri per imprese, banche e contribuenti.
I l nuovo governo torna alla carica con una proposta di riforma delle pensioni il cui provvedimento principale è il trasferimento del pagamento per il Tfr dalle imprese a conti individuali in fondi pensionistici. E’ una misura alla quale da lungo tempo ci opponiamo ritenendola dannosa per il Paese, le imprese, i lavoratori, ma soprattutto per le nuove generazioni. Una simile proposta era stata fortunatamente bocciata dal precedente parlamento, ma il governo la ripresenta irresponsabilmente peggiorata. Per capire le ragioni della nostra tenace opposizione alla proposta, è necessario chiarire quale è il vero problema del sistema pensionistico pubblico italiano. Come abbiamo affermato in altri nostri precedenti lavori, con la riforma Dini almeno due gravi problemi sono in via di soluzione. Il primo è l’eccessiva onerosità delle pensioni offerte, che per fortuna la Dini ha corretto per il futuro. Il secondo è il pericolo dell’insolvenza a causa dell’invecchiamento della popolazione, che affligge diversi sistemi finanziati, come quello italiano, con la ripartizione, dove le pensioni sono pagate con i contributi degli attivi. Ma anche questo problema è stato affrontato dalla Dini. Il vero problema invece sono gli schiaccianti contributi imposti per finanziare i benefici pensionistici. Oggi questi prelievi (incluso il Tfr) ammontano ad oltre il quaranta per cento del salario lordo, assorbendo circa un terzo di quanto l’impresa paga per un operaio. L’onerosità del sistema italiano è confermata da confronti internazionali: in Europa l’Italia è in testa alla classifica; e negli Stati Uniti, dove il Social Security funziona da 70 anni, con soddisfazione generale, i contributi pensionistici rappresentano solo 12% del costo del lavoro. Pertanto, mentre la produttività media di un lavoratore nell’industria, misurata da quanto le imprese sono disposte a pagare, è quasi uguale nei due Paesi, tolti i contributi, la busta paga di un un lavoratore americano è circa un terzo maggiore di quella italiana. I contributi schiaccianti Perché allora i lavoratori non domandano riforme? Forse perché il contributo a «carico del lavoratore» dedotto dalla busta paga rappresenta solo il 10% della retribuzione. Il restante 35% è pagato direttamente dal datore di lavoro. Gli ingenui possono pensare che questa parte non li riguarda perché «la paga il padrone». In realtà la distinzione fra quanto è dedotto dal costo del lavoro e quanto dalla busta paga è puramente formale. In ultima analisi tutto il costo ricade alla lunga sui lavoratori. La riforma essenziale del governo è di trasformare il Tfr da un prestito all’impresa, ad un interesse (reale) trascurabile, ad un investimento in un fondo pensione. Questa misura chiaramente non tocca il vero problema degli schiaccianti contributi del sistema corrente. Il suo solo effetto è quello di aumentare le pensioni di una entità proporzionale alla differenza fra il rendimento di mercato e quello agevolato concesso alle imprese. L’entità di questo aumento non è fornita ma noi stimiamo che possa essere intorno al 15%. Dunque è chiaro che quello che guadagnano i lavoratori è precisamente quello che perdono le imprese: la differenza fra il tasso di mercato e quello agevolato meno le elevate commissioni caricate dai gestori dei fondi pensione. Ovviamente si tratta di un danno secco per le imprese, sicché il governo per compensare la perdita offre un paio di ulteriori misure. La prima è una modesta decontribuzione per i neo-assunti. Questa manovra diminuisce le entrate dell’Inps che, dovendo continuare a pagare le pensioni, ed essendo già in deficit, per riempire il buco deve aumentare il ricorso allo Stato; e lo Stato, essendo già al limite del deficit, deve inevitabilmente ricorrere ad un aumento della tassazione a carico di tutti, compresi i lavoratori. Il secondo «contentino» è una promessa di mettere a disposizione delle imprese un ammontare di credito simile a quello perso ma ad un tasso di mercato, data l’integrazione dei mercati finanziari europei, a meno che il governo copra la differenza fra tasso agevolato e quello di mercato, con ulteriori tasse. In conclusione la riforma proposta non fa nulla per alleviare il vero problema dei massacranti contributi, invece aumenta le pensioni (ma con un forte aumento del rischio sui lavoratori). Questo regalo gratuito è a spese delle imprese, banche, contribuenti e, apparentemente, dei «parasubordinati» il cui contributo aumenterebbe per la pensione pubblica ma non per i fondi pensione. Il nostro progetto Il nostro obbiettivo è semplice e chiaro: a) ridurre gradualmente e drasticamente i contributi, quasi un 70% rispetto a quelli odierni e un 40% rispetto alla riforma Dini a regime; b) lasciare intatti i benefici promessi dalla Dini; c) riportare a zero il sussidio dello Stato; d) permettere lo sviluppo della previdenza complementare che finora stenta a svilupparsi - in gran parte per gli esosi contributi obbligatori - in parte per seri difetti della normativa esistente. Questo «miracolo» è possibile trasformando gradualmente il finanziamento degli immutati benefici pensionistici dall’attuale ripartizione al metodo tradizionale a capitalizzazione - con il quale i contributi sono investiti in attività finanziarie cumulandosi a interesse composto, e la pensione viene finanziata con il capitale accumulato e non con i contributi degli attivi. E’ dimostrato che (a regime) la capitalizzazione è preferibile alla ripartizione sotto vari aspetti. Primo, il fatto che parte della pensione è finanziata dal rendimento del capitale riducendo il contributo richiesto (purché il rendimento delle attività finanziarie di lungo periodo sia maggiore del tasso di crescita del reddito nazionale, cosa che accade ed è prevedibile che continui). Secondo, con la ripartizione, il contributo necessario per finanziare dati benefici cresce se si riduce la dinamica del reddito, qualora diminuisce il tasso di crescita della popolazione. Questo crea il rischio di insolvenza che oggi minaccia tutti i sistemi a ripartizione. Il sistema a capitalizzazione è immune da questo difetto perché i benefici di ciascuno sono pagati con il capitale accumulato da lui e non con i contributi degli attivi. Ma come si fa a passare dalla ripartizione alla capitalizzazione? La capitalizzazione presuppone l’esistenza di larghe riserve da parte di un sistema pensionistico che non esistono nei sistemi a ripartizione (in Italia, c’è addirittura un debito verso lo Stato). Quindi per passare alla capitalizzazione è necessario reperire fonti di reddito oltre ai contributi esistenti. Un contributo all’Inps Ma quali fonti? E’ inconcepibile aumentare i contributi dei lavoratori, già eccessivamente tartassati. Né è credibile appoggiarsi al sussidio statale, specialmente quando tutti cercano disperatamente di ridurre la spesa. Questi sono i maggiori ostacoli all’adozione della capitalizzazione. Ma per l’Italia siamo pronti ad offrire una soluzione: l’uovo di Colombo è trasferire il flusso del Tfr come contributo straordinario all’Inps, mantenendo le pensioni ed inizialmente anche i contributi della riforma Dini. Poiché tale riforma prevede un bilancio in pareggio (incluso un iniziale sussidio statale), il contributo straordinario costituirebbe un flusso di surplus annuale che andrebbe ad accumularsi ad interesse composto e che formerebbe il fondo necessario per passare alla capitalizzazione. Concretamente, suggeriamo di trasferire solo due terzi del Tfr (5%) perché la Dini dispose l’opzione ai lavoratori di trasferire il restante terzo ai fondi complementari. Man mano che il capitale ed il suo rendimento crescono, una parte sarà usata per pagare le pensioni, riducendo così i contributi, come è illustrato nell’esempio presentato nella tavola allegata: la colonna (3) riporta il contributo MC (Modigliani-Ceprini) e le colonne (1) e (2) il contributo richiesto dalla Dini e dalla riforma del governo. Durante la transizione il pilastro obbligatorio risulterebbe un sistema misto dove la componente a capitalizzazione cresce e quella a ripartizione scende fino a zero (capitalizzazione totale) o si arresta ad un determinato livello, se si ritiene opportuno di mantenere una quota a ripartizione. Con il trasferimento del Tfr i lavoratori potrebbero perdere alcuni vantaggi importanti. Il primo è l’importante beneficio del diritto alla liquidazione, perdita che può essere evitata se l’Inps, invece di «precettare» il 5%, lo «prende a prestito», impegnandosi a restituirlo a fine rapporto allo stesso (o equivalente) tasso di rendimento reale offerto dalle imprese. L’altro beneficio del Tfr, di poter ritirare parte dell’accumulazione per particolari necessità, è un privilegio che può essere facilmente mantenuto offrendo ai partecipanti prestiti di una porzione del loro credito verso l’Inps, sull’esempio dei fondi pensioni americani 401K. Con il trasferimento del Tfr e con l’impegno del rimborso, per mantenere la pensione promessa dalla Dini, è necessario portare il contributo al 19% (comprensivo del 2,50% alla previdenza complementare), pur sempre un 40% più basso della Dini o della proposta del governo (Tavola 1). L’Inps dovrebbe investire i suoi fondi in un portafoglio indicizzato sull’intero mercato dell’euro, sotto la supervisione di un comitato di esperti internazionali (come già avviene ad esempio in Canada ed Irlanda), isolando in questo modo la gestione del portafoglio da interferenze politiche. Anche con un portafoglio così diversificato il rendimento è incerto. Si può renderlo certo utilizzando sofisticate tecniche finanziarie (swap) che abbiamo descritto in precedenti articoli. I fautori del trasferimento del Tfr a conti privati qualche volta suggeriscono che col crescere dei saldi nei conti individuali, ad un certo punto ci sarà una riduzione nella pensione e quindi nei contributi Inps. Se questa fosse la vera intenzione della manovra, le due proposte avrebbero parecchio in comune: ma onestamente dovrebbe essere dichiarata nella proposta, con una indicazione dei tempi e delle modalità. Il fatto che non sia neppure menzionata ha due possibili spiegazioni: una che non c’è l’intenzione; l’altra, che c’è ma è tenuta macchiavellicamente nascosta per ottenere l’appoggio dei lavoratori. Concludiamo ricordando che l’uso del Tfr proposto dal governo è incompatibile con la nostra proposta. Scegliere la strada del governo significa scegliere di condannare i propri figli a pagare indefinitamente contributi di un 60% maggiori di quelli richiesti nella nostra proposta di riforma.
Franco Modigliani Premio Nobel per l’Economia Marialuisa Ceprini Massachusetts Institute of Technology
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