"NuoveBR" P.Ichino: «Da cinque anni sotto scorta»
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martedì 13 febbraio 2007
Pagina 3 - Interni
L'intervista
Pietro Ichino - Le minacce dopo l’omicidio Biagi. Le polemiche per i «fannulloni»: «Il pericolo viene da chi oppone al dibattito solo chiusure»
«Da cinque anni sotto scorta. E quei tabù che alimentano la violenza...»
di Oreste Pivetta/ Milano
Riesce a sorridere Pietro Ichino alla notizia che lo dà tra gli obiettivi di queste nuove brigate rosse, rievocando gli ultimi anni «sotto protezione», dall’epoca dell’omicidio Biagi. «Sono sereno, comunque», dice il professore, 58 anni e una lunga carriera alle spalle, tra l’università, prima come studente, iscritto alla famosa Ho Chi Min, la sezione dei giovani comunisti, poi, con la laurea in mano, responsabile del coordinamento servizi legali della Camera del Lavoro, quindi deputato del Pci.
Pietro Ichino s’è preso la responsabilità di posizioni forse anticipatrici, sicuramente anomale rispetto a un sentimento comune, nei sindacati e nei partiti, soprattutto a sinistra. Non è detto che avesse ragione. Sicuramente non ha mai avuto paura, scrivendo su l’Unità e sul Corriere della Sera, di manifestare opinioni e giudizi sorprendenti, provocazioni e sassi nello stagno. Come, per ultimo, a proposito di statali fannulloni (articoli raccolti in un volumetto da poco presentato da Mondadori: I nullafacenti. Perchè e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica).
Professor Ichino, l’ha sorpresa questa nuova minaccia?
«Non proprio. È da cinque anni, dal marzo 2002, che vivo sotto protezione. Il periodo in cui l’allarme si manifestò più acuto fu, dopo l’omicidio Biagi, poco prima dell’arresto di Nadia Lioce, nel 2003. Allora si temette un altro attentato contro un giuslavorista. In quei mesi mi diedero l’auto blindata e d’allora è così: mi ci sono abituato. È un sacrificio sul piano della libertà, una specie di galera mobile. Ultimamente si dava la possibilità di un nuovo motivo di allarme specifico... ».
Da studioso e intellettuale impegnato nella politica la vicenda delle Br l’ha vissuta tutta, dai primi attentati al sequestro Moro, fino alla sconfitta del terrorismo. Come spiega questi periodici ritorni?
«Credo che si ripeta il dramma italiano che conosciamo: l’incapacità di discutere serenamente delle questioni del lavoro. La demonizzazioni delle posizioni alla fine genera il rischio che qualche scheggia impazzita interpreti l’isolamento come l’indicazione di un bersaglio».
Demonizzazioni: lo sono stati anche i contrasti polemici nei confronti dei suoi interventi a proposito di amministrazione pubblica e di fannulloni? Alla presentazione del libro a Roma, la protesta fu dura...
«Assolutamente no. Tutto quello che è dibattito deve potersi sviluppare nella massima libertà. Se non fosse così sarebbe veramente la fine della democrazia. È vero il contrario. A rendere fertile il terreno della violenza è la chiusura del dibattito, è cercare di bloccarlo, è porre dei veti o dei tabù: “Di questo non si deve neppure discutere”. La tecnica del tabù, al di là delle intenzioni di chi la pratica, può creare un terreno di cultura per chi la violenza vuole esercitare. Questo alimenta quelle schegge impazzite...».
Sembra che lei indichi un problema di fondo, un ritardo culturale, un’incapacità a rappresentare situazioni completamente nuove...
«... anche a confrontarsi con le esperienze straniere. Quando si incomincia a ragionare, allora si capisce che quanto magari proponevo e scrivevo dieci anni fa adesso è condiviso. Faccio un esempio: il superamento del monopolio statale del collocamento. Non significa ovviamente che tutto quel che dico sia destinato a essere condiviso sulla distanza...».
Siamo andati un po’ lontani...
«Non c’è una corrispondenza tra chi pratica la demonizzazione verbale e chi pratica la violenza. Un nesso casuale però esiste. Occorre più pragmatismo e meno faziosità nella discussione su questi temi».
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