9/2/2005 ore: 11:00

"Mondo" Il «call center» sbarca in Africa

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    mercoledì 9 febbraio 2005
      Mauritius e Dakar, il «call center» sbarca in Africa
      Incentivi e bassi salari, si moltiplicano i distretti per attrarre servizi e posti di lavoro

      A Port Louis, capitale dell’isola di Mauritius, non si vendono solo cartoline di mare e palmizi. E nemmeno solo conti correnti da paradiso fiscale. La novità, pochi chilometri fuori dalla città, è Cyber City: un nuovo distretto tecnologico, costruito con l’aiuto indiano, per attrarre lavoro dall’Occidente. Sì, perché nella mappa delle minacce ai lavoratori dei Paesi ricchi, dopo la Cina e l’India sta entrando anche l’Africa: bassi salari e competenze sufficienti per certe funzioni permettono ormai a decine di imprese occidentali di esportare posti di lavoro anche nel continente più arretrato del pianeta. E’ il discusso outsourcing che sta arrivando alla frontiera estrema della globalizzazione.
        «Il nostro obiettivo - sostiene Sushil Khushiram, ministro dell’Industria di Mauritius - è usare la Cyber City per esportare servizi di information technology in tutto il mondo, attraendo società internazionali che creino call center , operazioni di registrazione e centri di sviluppo del software». La capacità di attrarre, nel caso di Mauritius, non sta solo nella manodopera a costo molto basso. Sta anche nel fatto che, finalmente, questi servizi possono essere proposti al mercato mondiale di lingua francese, primo idioma nell’isola dopo il creolo. «C’è un’immensa opportunità per le società di outsourcing di penetrare nei mercati francofoni e diversificare le loro operazioni su una scala globale partendo da Mauritius», dice ancora Khushiram.
          Port Louis non è un’eccezione. In molte parti dell’Africa stanno nascendo società di outsourcing : di un business che, nel mondo, quest’anno dovrebbe fatturare tra i 220 e i 250 miliardi di dollari, con sei milioni di dipendenti, il continente se ne aggiudicherà una parte piccola, non più di 3-4 miliardi per 100-150 mila posti. Qualcosa di comunque significativo, dal punto di vista africano. Sempre per restare in ambito francofono, a Dakar, in Senegal (uno dei 20 Paesi meno sviluppati del pianeta), la Premium Contact Center International ha aperto nel 2002 e oggi ha più di 600 dipendenti: un accordo con un’università locale consente ai dipendenti di affinare l’accento, per non dare l’impressione ai clienti del call center che stanno in Francia o in Canada di parlare con l’Africa Nera; e attraverso Internet ogni operatore sa che tempo fa nella località a miglia di distanza con la quale è in collegamento, tanto per entrare in sintonia con l’interlocutore. Altri operatori francofoni stanno crescendo, oltre che in Senegal, in Marocco e in Tunisia.
            Ma non è solo la lingua francese ad attrarre servizi in Africa. Il Ghana, il Kenya, l’Uganda, il Togo, il Sudafrica sono destinazioni scelte sempre più spesso come alternative all’India per il mercato anglosassone. E non si tratta solo di call center . La Affiliated Computer Services di Accra (Ghana), per esempio, registra su computer le note scritte a mano di migliaia di dentisti negli Stati Uniti e in quattro anni è passata da 65 a duemila dipendenti.
              In generale, gli stipendi sono bassi: si va dai 5-6 mila dollari l’anno del Kenya ai 2.800-3.300 del Senegal. Ma si tratta, in ogni caso, di salari nettamente superiori alla media di quei Paesi. In più, questi business sono l’inizio di una rete che collega imprenditori, lavoratori, scuole locali e il mercato globale.

              Qualcosa di straordinario, soprattutto per l’Africa subsahariana, tanto che c’è già chi parla di Silicon Sahara. Con un eccesso di ottimismo, almeno per ora. Le caratteristiche che servono per mettere in piedi business del genere sono la sicurezza dell’energia elettrica, buone linee di telecomunicazione, governi stabili, sistemi legali certi, forza lavoro istruita. Cose che nella maggior parte dell’Africa raramente si trovano tutte assieme e anzi molto spesso mancano tutte assieme. Gli inizi, però, sono incoraggianti. Per gli africani, naturalmente. Per i colletti bianchi occidentali è una nuova minaccia ai posti di lavoro: Mauritius, finora un sogno, rischia di colorarsi da incubo.

              Danilo Taino

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