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 mercoledì 16 febbraio 2005
L’accusa dei magistrati: i pagamenti dei creditori avvenivano su disposizione scritta del direttore marketing «La Conad voleva l’aiuto dei politici» Gli interrogatori degli amministratori CeDi arrestati: i vertici conoscevano lo stato di dissesto
BARI - Quando gli uomini Conad, nel 2002, entrarono nel consiglio di amministrazione di CeDi Puglia, dicono le quattro persone arrestate (Di Bitetto, Ronco, Cozzoli e Giangaspero) e interrogate ieri, sapevano già tutto. «Tutto» cosa, non è ancora ben chiaro, anche se per il momento ciò che è più rilevante è la data. In altre parole, secondo quanto trapelato ieri, i quattro di CeDi si sarebbero difesi sostenendo che il colpo di grazia alla «decotta» CeDi sarebbe stato inferto da Conad a partire dal 2002, ma che questa non fu un’operazione d’emergenza, poiché «quelli di Conad» conoscevano lo stato di dissesto di CeDi (uno dei più importanti anelli del «sistema Conad») e per non subire pesanti e forse irreparabili contraccolpi inviarono direttamente i loro più alti dirigenti per spolpare i resti di CeDi e consentire a Conad di salvare il salvabile (i soldi) e la faccia (almeno con i fornitori più importanti).
I magistrati di Bari (i tre pm Rossi, Nitti e Nicastro, e il gip Civitano) sostengono che l’amministratore delegato della Conad, Camillo De Berardinis, e il responsabile amministrazione e finanza, Mauro Bosio (entrambi ai domiciliari, saranno interrogati oggi), quando dovevano pagare i creditori, si muovevano «su disposizione anche scritta dei vertici Conad». E invece di pagare prima i creditori privilegiati (centinaia di dipendenti e fornitori medio-piccoli, molti dei quali finiti sul lastrico), favorivano «le società del sistema Conad» e altri creditori scelti sempre dalla stessa Conad.
Ma «disposizioni scritte», a un amministratore delegato e a un dirigente del settore finanziario, può impartirle solo chi è collocato a un gradino più alto, non certo quelli di CeDi, che secondo l’accusa hanno incrementato i rispettivi patrimoni truccando le carte e intrecciando partecipazioni di società ad hoc e funzioni di gestione e di controllo, ma che certo non potevano dare ordini a Conad. «Il pagamento di alcuni fornitori, espressamente indicati da Conad», dice il gip, è stato ordinato anche con comunicazioni scritte firmate da una signora che in Conad, probabilmente, svolgeva mansioni di segretaria. Già, ma di chi? Poiché si tratta di ordini di pagamento «con benestare di Mambelli», la signora ha agito, come lei stessa ha ammesso, «su specifiche indicazioni di Franco Mambelli», direttore marketing di Conad.
Un gradino alla volta, ecco anche il momento della «politica». Accade quando gli uomini CeDi si arrabbiano con gli uomini Conad, perché questi ultimi sembrano convinti di poter essere salvati dalla «politica» e cercano in tutti i modi di ottenere l’amministrazione straordinaria di CeDi e della controllata Cedis, società con cui attuano le operazioni sale and lease back , il «vendi e affitta» che permette a Conad di intascare 15,5 milioni di euro. Gli uomini CeDi si accontenterebbero di subire la procedura fallimentare del tribunale, per non riesumare scheletri nell’armadio che - dicono - potrebbero far saltare tutto. Ma gli uomini Conad non sono dello stesso parere. E per tranquillizzare gli interlocutori dicono che non chiederanno l’amministrazione controllata. Ma in udienza, attraverso un legale rigorosamente «d’area», fanno il contrario.
Sperano, gli uomini Conad, che evitando i curatori fallimentari del tribunale, e finendo la questione in mano ad amministratori di nomina ministeriale, si possa centrare l’obiettivo di «una gestione più politica della cosa». Anche perché ormai rischiano di essere coinvolti tutti, cosa che accadrà più avanti, quando le indagini del Gico della Guardia di Finanza convinceranno i giudici che «la responsabilità della bancarotta è da attribuire, oltre che ai soggetti citati, anche a Franco Mambelli e a Mario Natale Mezzanotte, presidente del consiglio di amministrazione Conad».
«Be’, che non si trattasse di gente dalle spalle scoperte mi fu subito chiaro», ricorda Vito Perrone, sindacalista Ugl, che denunciò tutto alla magistratura ben prima del crac. Ma alla sezione fallimentare del tribunale di Bari incontrò un giudice che, dice Perrone, «non so perché, mi trattò a pesci in faccia e mi mise alla porta».
Carlo Vulpio
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