29/9/2004 ore: 10:48
"Iraq 4" Intervista al generale Franco Angioni
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Intervista al generale Franco Angioni «I rapitori pressati anche dalla mobilitazione araba» L’ex comandante Nato: non potevano non tener conto del loro lavoro umanitario e della solidarietà mostrata loro dagli iracheni Umberto De Giovannangeli Il generale Franco Angioni, oggi deputato dell’Ulivo, è stato comandante del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò quel Paese; una guerra combattuta anche a colpi di rapimenti. Per l’esperienza acquisita sul campo, il generale Angioni è la persona più adatta per commentare a caldo il rilascio delle due volontarie italiane. Quanto ha pesato il pronunciamento del mondo arabo nella liberazione delle due Simone? «In linea di principio ha pesato molto, ma certamente ha pesato se coloro che le hanno rapite avevano consapevolezza che il mondo arabo sapeva chi fossero le due volontarie rapite, il loro impegno solidale con la popolazione civile irachena, il loro rifiuto della guerra di occupazione. I rapitori non hanno potuto sottrarsi a questa spinta che è venuta dal mondo arabo e dalla stessa società irachena, e in questo caso sono dovuti venire a più miti consigli. Queste manifestazioni a favore della liberazione delle due volontarie italiane hanno pesato specialmente se coloro che le detenevano prigioniere erano noti». La liberazione è avvenuta grazie anche a un lavoro di intelligence. Cosa può ò insegnare rispetto agli strumenti da attivare nella lotta al terrorismo? «In genere le operazioni militari non si fanno senza intelligence, e cioè senza le informazioni. Ma queste informazioni, però, traggono origine dalla politica. Se ci si avventura in una situazione di carattere politico-militare in una certa area, su quella area bisogna aver esercitato attività di carattere politica, che consente di poter essere nell’ambiente, di conoscere quali siano i costumi, quali le consuetudini, quali gli aspetti più chiari, le luci, le ombre... Forse noi italiani per l’Iraq, se risaliamo al 2001, in termini di politica eravamo a digiuno. Siamo partiti senza una politica estera che ci consentisse di essere bene inseriti nello scenario mediorientale, e di conseguenza siamo dovuti andare controcorrente. Dopo oltre due anni abbiamo indubbiamente acquisito delle capacità di intelligence superiori a quelle che avevamo quando ci siamo imbarcati nell’avventura». La pratica dei sequestri continua ad essere un elemento fondante della strategia jihadista. Rispetto allo scenario iracheno, cosa insegna, nel bene e nel male, la vicenda del rapimento delle due volontarie italiane? «C’insegna che dobbiamo fronteggiare questa forma di lotta che non ha possibilità di difesa se non in forma quasi passiva, vale a dire metterci in condizioni di non subire un sequestro. Non è come nelle altre forme di lotta militari, per cui se c’è un attacco di artiglieria bisogna mettersi in grado di fare la “controbatteria”: qui, purtroppo, se ci fanno un sequestro non è che possiamo rispondere con un “controsequestro”, dobbiamo semplicemente cominciare a trattare e quindi essere assolutamente in difesa, e chi è sempre in difesa per forza di cose perde. E allora per non essere costretti a difenderci, l’unica cosa è fare in modo che non abbiano successo, e cioè che l’ostaggio non cada nelle loro mani». Intorno alla richiesta di liberazione delle due volontarie italiane c’è stata una forte coesione nazionale, a cominciare dal mondo politico. Ora, però, si ripropone il problema di come uscire dal pantano iracheno. «Io terrei molto separati i due avvenimenti: l’avvenimento base è che l’Italia, attraverso il governo Berlusconi, ha dato l’adesione politica alla decisione dell’amministrazione Usa di scatenare la guerra contro l’Iraq; contro questa adesione politica si è cercato di realizzare tutta l’opposizione possibile, e poi, quando il presidente Bush dal ponte di volo della portaerei americana aveva dichiarato solennemente, il primo maggio 2003, che la guerra era finita, noi dell’opposizione avevamo sostenuto che non ci pareva che questa fosse una dichiarazione ufficiale e legittima di cessazione delle ostilità. I fatti ci hanno dato tristemente ragione e continuiamo a essere imbarcati in questa avventura, immersi in questa tragedia creata dall’amministrazione americana, senza avere una strategia di uscita. Il rapimento delle due Simone è un incidente di percorso; è un'attività collaterale al grande male che è quello della guerra in Iraq e della sua disastrosa gestione. Chiudiamo questa parentesi, con la massima soddisfazione per la liberazione dei due ostaggi, e ricominciamo a parlare di cosa si fa in Iraq, come venirne fuori...». Come venirne fuori? «Così come stanno le cose, la strategia americana di continuare a bombardare, privi di un reale controllo del territorio, e a ogni azione della guerriglia rispondere con una rappresaglia, bombardando Falluja o le città sante sciite, questa strategia si è rivelata perdente, fallimentare. Occorre a mio avviso fare in modo che si inizino le trattative, cioè mediazione con coloro che possono schierarsi dalla parte del popolo iracheno, nel senso di restituire una forma di istituzionalizzazione al popolo iracheno. Il che vuol dire realizzare un governo iracheno davvero rappresentativo della volontà popolare, cosa che non è il governo Allawi; cercare di dialogare con le parti che si oppongono a una ripresa della stabilizzazione. Per fare questo occorre individuare le organizzazioni e le persone che possano cominciare questo processo di avvicinamento per una forma di mediazione, non per cedere ma per far venire tutti allo scoperto. E l’unica organizzazione, in base al diritto internazionale, in grado di poter svolgere questo ruolo è l’Onu. Ma perché l’Onu possa entrare in campo è necessario un passo indietro dell’amministrazione Usa; occorre un cessate il fuoco propedeutico all’inizio delle trattative». |