«Inutile programmare il tasso d’inflazione»

22 ottobre 2002
Economisti a confronto su «Lavoce.info». E cadono molte certezze
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«Inutile programmare il tasso d’inflazione»
MILANO - Il tasso d’inflazione programmata? Non serve più. Oggi è «solo un motivo di litigio». Meglio prendere «come riferimento nella contrattazione sindacale l’andamento dei prezzi e dei salari in Europa». E’ questa la tesi, per certi versi provocatoria, lanciata quasi due mesi fa da due autorevoli docenti italiani di economia, Giuseppe Bettola dell’università di Torino e Tito Boeri della Bocconi di Milano, sul sito internet di discussione Lavoce.info . Da allora, proprio su Lavoce.info , si è aperto un confronto al quale stanno partecipando economisti ed esponenti sindacali di diverse tendenze. E che sta mettendo in discussione una buona serie di certezze. D’accordo con l’«inutilità» del tasso d’inflazione programmata è, per esempio, Luigi Angeletti, segretario generale della Uil. «Dal punto di vista contrattuale - scrive - l’obiettivo macroeconomico scolpito nella pietra dell’accordo fra governo e sindacati del 23 luglio è quello dell’invarianza del salario reale. La definizione dell’inflazione programmata e la successiva verifica degli scostamenti sono meccanismi utilizzati per raggiungere quell’obiettivo». Ma oggi - argomenta Angeletti - la lotta all’inflazione e il risanamento dell’economia sono due «traguardi raggiunti»: oggi l’inflazione in Italia «non dipende più dal costo del lavoro», ma «dalla speculazione e dal sistema distributivo». Così, per il rinnovo dei contratti le rivendicazioni «non si limiteranno all’irrealistico tasso d’inflazione programmata dal governo nell’1,4%, ma punteranno all’invarianza del salario reale, con richieste coerenti alle realistiche previsioni dell’Unione europea». Del tutto opposta la posizione di Giampaolo Galli, capo economista di Confindustria, secondo il quale il tasso programmato di inflazione «è ancora utile». A patto che «nel fissarlo il governo abbia presenti le dinamiche attuali e, soprattutto, prospettiche dell’inflazione negli altri Paesi europei». Non molto lontana l’opinione di Angelo Gennari e Gabriele Olini, del centro studi Cisl. «Il tasso programmato d’inflazione serve ed è servito- sostengono - anche a impegnare diversi e riluttanti governi ad attivare le misure che ne potrebbero anche favorire l’effettivo raggiungimento: in modo diretto (vedi tariffe) o indiretto (gli interventi per favorire la concorrenza, con qualche forma di controllo o, meglio, di verifica nella fase di formazione dei prezzi)». Alla domanda iniziale - il tasso d’inflazione programmata serve a tenere bassa l’inflazione? - il professor Carlo Dell’Aringa, presidente dell’Isfol, offre infine una risposta su due livelli. E spiega: «La prima esigenza è quella di evitare conflitti distributivi e rincorse salariali fra diverse categorie di lavoratori. Un pericolo che nel nostro Paese è sempre presente. In quest’ottica, dunque, togliere il tasso di inflazione programmata potrebbe essere motivo e causa di ulteriore disarticolazione delle piattaforme sindacali, tantopiù in questa fase di forti difficoltà che il dialogo sociale attraversa». «Ma vi è un’altra esigenza - osserva però Dell’Aringa - ed è quella di dover decentrare la contrattazione collettiva a livello territoriale. Le distanze all’interno del Paese sono ormai enormi: in alcune regioni non si trovano lavoratori e occorre farli arrivare dall’esterno, mentre in altre non ci sono abbastanza posti di lavoro e la disoccupazione prospera». In simili circostanze andrebbe perciò riequilibrato il sistema di contrattazione, «spostando l’asse dal livello nazionale a quello decentrato». E in un sistema di questo tipo, osserva Dell’Aringa, «il tasso d’inflazione programmata potrebbe rivelarsi inutile, se non dannoso: certamente il suo ruolo andrebbe ridimensionato».
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G.R.
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