27/10/2003 ore: 10:38

"Intervista" V.Visco: Economia in declino

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 Intervista a: Vincenzo Visco
ex ministro del Tesoro
       
 



Intervista
a cura di

Roberto Rossi
 
27.10.2003
«Il quadro ribadito sabato dalla Banca d’Italia ci dice che il Paese ha perso tre anni per inseguire le promesse di Berlusconi»
Economia in declino, famiglie sempre più povere

MILANO «Siamo in una condizione tecnica di declino economico. In termini non solo relativi, ma anche assoluti. Assistiamo, cioè, a un impoverimento
progressivo delle famiglie italiane». Per chi, come l’ex ministro del Tesoro Vincenzo Visco, è abituato a macinare numeri, anche quelli che sabato Bankitalia ha reso noto, per bocca del vicedirettore
Pierluigi Ciocca, e che certificano una stagnazione in Italia mai così pesante da oltre 50 anni, non creano
tanto stupore. «L’analisi di via Nazionale non è nuova. Noi, quei numeri, li andiamo ripetendo da
tempo».
Resta il fatto che lo studio di Bankitalia delinea un quadro per l’Italia molto fosco.
«Certo. Dire che questa è la stagnazione più lunga da mezzo secolo in qua è un discorso molto serio».
E che cosa ci dice?
«Ci dice che si è tornati alle condizioni del 2001. Anzi, mi correggo. Lì almeno il bilancio stava in regola. Ci dice che abbiamo perso, per il momento, tre anni. Tre anni a inseguire le promesse di Berlusconi. Ci dice, infine, che le difficoltà che stiamo vivendo ora saranno un problema anche per chi verrà dopo».
Perché?
«Perché si dovrà convincere di nuovo i sindacati a collaborare fattivamente non tanto su questioni salariali, ma anche su riforme di varia natura. Dobbiamo vedere di rilanciare la ricerca, l’istruzione, la formazione, le nuove tecnologie. Problemi
che adesso nessuno segue».
Lo studio di Bankitalia mostra anche un’Italia che arretra nel confronto con gli altri paesi d’Europa. Quali sono le nostre peculiarità?
«Le faccio un esempio. Prendiamo il caso della Cina e tutto il dibattito sulla rivalutazione dello yuan.
In verità la bilancia commerciale ci nese è pressoché in equilibrio. Quindi la Cina importa quanto esporta.
Il problema è che i beni che importa noi non li produciamo. Anzi è il contrario. È la Cina che esporta quello che noi produciamo. E questo
significa che noi produciamo merce a basso contenuto tecnologico, che il sistema non sta competendo, che si sta ripiegando su sé stesso e che
non c’è nessuna consapevolezza della classe politica su quello che andrebbe fatto».
Che cosa rimprovera al governo?
«Non hanno capito che il problema è anche di produttività, di movimentazione di settori interi, di
costruzione di un’industria e di interventi per evitare anche la dei distretti. Che poi altro non è che un
problema di tecnologia, di ricerca, di concorrenza, di ridistribuzione del reddito. Questi sono i problemi.
Poi ci si può confrontare anche sul welfare o sul mercato del lavoro. Ma non sono certo le uniche cose. Hanno concentrato tutto su questo
aspettando la ripresa».
Ripresa che non è arrivata e che forse non arriverà neanche il prossimo anno?
«Tanto poi quando arriva chi ne trarrà beneficio sarà la Germania e la Francia. Saranno i paesi che, tornando alla Cina, potranno esportare cose che a loro interessano. Non è che possiamo esportare solo magliette. Questa è la situazione. Siamo in una fase di stagnazione con gli ultimi 18-20 trimestri che hanno registrato un tasso medio di crescita dello
0,3%. Stiamo perdendo massicce quote di esportazioni».
Senta, lei non trova che lo studio completa della sodalizio tra Antonio Fazio, e il governo
Berlusconi? Non era Fazio che ipotizzava un nuovo miracolo economico grazie al centrodestra?
«Io credo che allora il governatore pensava, si illudeva, riteneva che fosse possibile fare un taglio di spesa pubblica molto forte accompagnato da una riduzione fiscale. Che è un modello praticabile».
Un po’ impopolare però?
«A prescindere dalla popolarità o meno è un modello thatcheriano applicato anche da molte socialdemocrazie europee negli anni ‘80. In Italia questo approccio, a mio modo di vedere, è precluso proprio dal costo debito pubblico. Noi abbiamo
un bilancio che ha un onere addizionale rispetto a quello degli altri paesi di circa di tre punti di Pil.
E abbiamo già adesso un livello di spesa primaria inferiore alla media europea con una pressione fiscale che è pressoché la stessa. E quindi non c’è
molto spazio per tagliare».
Il modello descritto era in voga, per un periodo di tempo, anche nel centrosinistra?
«Sì. Anche nella nostra maggioranza prese il sopravvento l’idea tipica della destra che il problema dell’Italia era quello di ridurre le tasse e di deregolamentare. Un modello stravagante e che non aveva niente a che vedere con la situazione italiana.
Lo dimostra il fatto che dopo un anno di allegria berlusconiana siamo andati a sbattere contro lo scoglio del debito pubblico».





 


     

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