"Intervista" Swartz: Timberland scommette sull'Italia

Venerdí 18 Luglio 2003
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Timberland scommette sull'Italia
 Il presidente Swartz: è la prima «base» in Europa con una rete di 108 negozi
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ROMA - Scarpe in pelle con suola in gomma, pantaloni multitasche e camicia sportiva. Il presidente di Timberland non può che essere vestito così, anche se è affascinato dall'abbigliamento degli italiani, mai casuale, neanche quando è casual. «Qui sembra che la gente impieghi tre o quattro ore per vestirsi», osserva dopo una passeggiata a Roma Jeffrey Swartz, terza generazione della famiglia che controlla il 46% della società quotata a New York. «Vorrei sapermi vestire con quella stessa cura, quell'attenzione ai dettagli, almeno una volta nella vita». Il rammarico dura poco, perché quegli stessi italiani sono i primi clienti di Timberland fuori dagli Stati Uniti. Forse sono ex paninari, ma nei negozi entrano anche i loro padri e i loro figli. Mister Swartz, come spiega questo successo nella patria della moda? È lo spirito dell'outdoor, dello stare all'aria aperta che ci premia. Anche nelle città, nei posti caotici, affollati, la gente ha voglia di aria aperta. Chi compra le nostre scarpe o il nostro abbigliamento vuole sentire l'odore dell'oceano, dei pini, della natura. Così arrivano anche ricavi e utili? I risultati sono dovuti anche alla politica fatta in Italia con il direttore generale Roberto Dalla Valle. Abbiamo raddoppiato il fatturato in due anni e aperto 61 negozi in franchising: oggi ne abbiamo 108. Nessuno di proprietà? Solo quello di Corso Venezia a Milano è di proprietà. Ma è un negozio discreto, creato con la filosofia di una società del posto. Non vogliamo invasioni con grandi punti vendita: l'obiettivo è essere nel mercato, non sul mercato. Cerchiamo partner locali per entrare nel modo migliore. Se applichiamo il modello Dallas a Verona, so bene che perdiamo. Producete quasi tutto fuori dagli Usa. Avete partner produttivi in Italia? I nostri stabilimenti, con tremila addetti, sono in Repubblica Dominicana e a Portorico. Poi abbiamo fornitori in Sud America, Asia ed Europa, soprattutto orientale. In Italia stiamo per lanciare una piccola collezione dedicata a una fascia medio-alta di consumatori. E qui è partito il progetto della nostra linea donna, che è alla quarta stagione. Lo fa un'azienda italiana ed è un progetto pilota per tutto il mondo. La venderete in America? Sì, ma la realizzeremo altrove. C'è una grossa differenza di taglie tra Italia e America. Quando ho portato a mia moglie una camicia XL della collezione, voleva uccidermi. Oggi le scarpe valgono tre quarti del vostro fatturato mondiale e cresce la quota dell'abbigliamento. È quello il futuro? Sicuramente la quota crescerà ancora. Peraltro, questo rapporto è diverso in Italia e in Europa, dove il 50% dei ricavi arriva da abbigliamento e accessori. Lo sviluppo di questi prodotti è stato decisivo per acquisire quote in Italia e da qui siamo partiti per conquistare l'Europa. Come? Da qui gestiamo il progetto europeo di franchising: l'anno prossimo apriremo 180 negozi in Europa. Non avete risentito delle proteste antiamericane? Per niente, anzi cresciamo ancora. Probabilmente perché il nostro è un marchio senza nazionalità, legato alla vita all'aria aperta. Il cliente sente che c'è passione oltre che business. Nel vostro bilancio, oltre ai numeri, c'è un capitolo sul community service, il volontariato sociale. Ogni dipendente ha 40 ore retribuite da destinare al servizio sociale e l'anno scorso le ore totali sono state 182mila. Il nostro obiettivo è fare bene e fare del bene. E il servizio sociale crea uno spirito di gruppo importante.
ALESSANDRO BALISTRI
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