25/7/2005 ore: 11:20

"Intervista" S.Pezzotta: «Governo senza un’idea di sviluppo»

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    sabato 23 luglio 2005
      Pagina 13


      «Governo senza un’idea di sviluppo»
        Intervista a Savino Pezzotta: questo Dpef è inutile. Le tasse? Comincino a restituire il fiscal drag

        di Oreste Pivetta
          DA BUTTARE. Il documento di programmazione economica finanziaria non piace ai sindacati e il giudizio di Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl, è «pesantemente negativo». Il Dpef di Siniscalco è un piano di sopravvivenza, per accontentare l’Euro-
          pa e per sopravvivere in vista delle elezioni, qualcosa che non c’entra nulla con le pesanti necessità di un paese in crisi, qualcosa che non stimola, che non promuove, che non coinvolge.
            Caro Pezzotta, nell’estate delle banche, della Cina, degli immobiliaristi, dei nostri bilanci che non tornano , come ha testimoniato allarmata anche la Corte dei Conti, ci troviamo tra le mani trentasette pagine che non lasciano intravvedere nulla di buono, dunque?
              «Semplicemente dico che il dpef non ci soddisfa. Ci saremmo attesi determinazioni più precise per quanto riguarda crisi, sviluppo, innovazione, Mezzogiorno. Invece leggiamo solo annunci oppure vediamo riproporre passi della finanziaria precedente, passi mai tradotti in realtà. Non ci sono idee aggiuntive, non ci sono risorse aggiuntive. Manca la spinta... È grave che della scuola si parli pochissimo. Vuol dire che non si dà prospettiva. Bisognerebbe capire che scuola e università, cioè cultura, formazione, ricerca, sono l’asse della crescita».
                Pare che ci sia qualche cosa di nuovo a proposito di lotta all’evasione fiscale...
                  «Dovrebbero precisare però quali strumenti pensano di adottare. In tanta evanescenza come si fa a credere a chi fino a ieri ha concesso condoni su condoni? Mentre non si spende una parola sulla necessità di tassare di più rendite immobiliari e finanziarie, si continua a colpire il lavoro. Come si fa a concepire che la pressione fiscale pesi fino al 47 per cento sull’impresa e che la rendita finanziaria sia gravata solo del dodici per cento. È come dire: disinvesti da una parte e investi dall’altra, investi nella finanza o tuttalpiù in settori garantiti dalle tariffe».
                    In un mercato che continua a presentarsi di monopolio, malgrado tutte le chiacchiere circa la liberalizzazioni...
                      «L’Italia è diventata un paese dove vivono molti ricchi, ma dal quale sono spariti i capitalisti. Si assiste alla distorsione dei fini del capitalismo, un capitalismo che dovrebbe mettere in campo capacità di rischio per investire, produrre, innovare e investire ancora per produrre. Anche la questione dell’Irap... Spieghino come si copre la spesa, come si compensano i tagli se per giunta si comprimono i trasferimenti agli enti locali. Se ricorressero alla fiscalità generale, allora sarebbero sempre i soliti a pagare...».
                        Diciamo i redditi fissi, dei cui redditi bassi sempre si tace.
                          «Infatti. Vogliono parlare di fiscalità? Comincino a restituire il fiscal drag, perchè la prima necessità di questo paese è appesantire le buste paga. Se si vogliono rilanciare i consumi, si dovrebbero adeguare salari e pensioni. Ancora una precisazione a proposito di Irap: si faccia la riduzione, ma legandola alle finalità di chi ne beneficia, le tasse risparmiate si devono investire nell’impresa, non si può consentire che vengano spese per comprar case».
                            Che avreste chiesto al dpef?
                              «Qualche indicazioni nel segno dello sviluppo, ad esempio progetti certi per il Sud, progetti per infrastrutture e logistica, fissando investimenti e tempi».
                                Ma almeno ne avete discusso con il ministro?
                                  «Ci hanno presentato un documento di sette pagine, che oggi è diventato di trentasette. Siamo molto al di là della concertazione. Il dialogo sociale è stato cancellato. Siniscalco s’è inventato l’ascolto delle parti sociali, che non sono più coinvolte nella governarce dei processi. L’errore politico è gravissimo. Per affrontare questioni vere, di svolta, nessuno può far da sè».
                                    Abbiamo vissuto settimane di movimenti bancari. Le è piaciuta l’operazione Unipol?
                                      «Mi è piaciuta l’operazione di Unicredit: quello è stato un bel modo di affrontare la globalizzazione. Unipol avrà fatto bene i suoi conti, ma qualche turbamento me l’ha messo addosso. Aspettiamo il piano industriale. Persino Ambroveneto qualche turbamento me lo ha dato. Non ho capito come si possa internazionalizzare il nostro sistema economico, se poi si sposano certi atteggiamenti di chiusura nazionale».
                                        In compenso buone notizie da Pechino...
                                          «Vedremo come reagirà il dollaro. Ma anche questa storia mette in risalto la debolezza dell’Europa, che avrebbe bisogno di una politica economica comune, di una politica estera comune. Invece procede in ordine sparso».
                                            Alberto Bombassei, vice presidente di Confindustria ha presentatol’altro ieri un progetto di nuove relazioni sindacali, che conferma gli accordi del ‘93. Che cosa vuole Confindustria?
                                              «Probabilmente non far nulla. Il nostro ragionamento è chiaro: se dobbiamo rinnovare il nostro sistema, quel modello contrattuale non ce la fa più, buono un tempo, adesso troppo centralizzato. Noi vogliamo qualcosa che stimoli l’impresa a investire su di sè e i lavoratori a investire sull’impresa, cioè a vigilare sulla crescita dell’impresa. Il nostro è un modello di forte responsabilizzazione. Due livelli contrattuali: il primo nazionale, a tutela dei redditi e dei diritti di cittadinanza, il secondo che rafforzi la contrattazione decentrata, privilegiando la dimensione aziendale oppure, in alternativa, quella territoriale. Confindustria forse teme che i due livelli di contrattazione diventino tre. Forse teme per questo un moltiplicarsi delle tensioni. Ma non è così. Cerchiamo solo di esaltare un corretto rapporto tra salario e produttività, tra investimenti e salario».
                                                Non c’è il rischio di abbandonare a se stessi i più piccoli , quelli che hanno meno forza per contrattare?
                                                  «No, perchè esiste appunto, in alternativa a quella aziendale, una contrattazione territoriale che organizza le situazioni più deboli. Come già avviene in edilizia e nell’agricoltura».
                                                    Spera di convincere Epifani?
                                                      «Non vorrei mai che si andasse avanti tra una proposta del governo, una di Confindustria, i sindacati divisi, in piena campagna elettorale».
                                                        E dopo le elezioni?
                                                          «Chiunque vinca, dovrà affrontare problemi enormi. Sacrifici all’orizzonte e la concertazione è l’unico strumento che garantisca equità»

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