Intervista a cura di Bruno Ugolini
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domenica 20 luglio 2003 economia e lavoro 10 anni di concertazione
La dialettica sociale chiede più spazio per la contrattazione
Ha ancora un valore la concertazione oggi, nel decennale dell’accordo del 1993, magari per affrontare un tema scottante come quello delle pensioni? Abbiamo ascoltato l’opinione di Gino Giugni ed ecco il parere di un altro protagonista, Pierre Carniti, già segretario generale della Cisl. Qualcuno ha scritto, a proposito di pensioni, che l’attuale governo per affrontare una questione del genere avrebbe dovuto riscoprire il metodo della concertazione. Una strada praticabile? «È chiaro che scelte del genere non possono essere affrontate e risolte, ammesso che esistano problemi, senza un consenso sociale. Non è stato chiaro l’obiettivo del governo. La pretesa di fare cassa sarebbe stata intollerabile, perché avrebbe innescato una reazione sociale straordinaria. Se invece l’intenzione fosse stata quella di aggiornare, integrare, completare la cosiddetta riforma Dini, la questione non avrebbe dovuto avere a che fare con la legge Finanziaria. Questo perché gli effetti si sarebbero avuti a medio e lungo termine. C’è stata in realtà, in queste settimane, un’offensiva propagandistica che dimostrava scarsa chiarezza. Le riforma Dini ha realizzato, con otto anni d’anticipo, quello che ora ha fatto la Francia e che cerca di fare la Germania. Oggi i dati confermano che il fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, l’Inps, è in sostanziale equilibrio e sulla base delle previsioni lo sarà anche nei prossimi anni». Non esistono, dunque, problemi, ad esempio per i lavoratori atipici? «Non solo per quelli che, poveretti, non vedranno la pensione. Esistono altre questioni d’equilibrio finanziario. Per la gestione, ad esempio, dei coltivatori diretti. E’ possibile decidere che si fa un trasferimento di fondi pubblici ai fini previdenziali per determinate categorie, ma ciò non ha nulla a che fare con la gestione previdenziale. Se si decide di assistere i coltivatori diretti, bisogna ripartire i costi attraverso la tassazione. Altri problemi esistono per la gestione dei lavoratori elettrici, per quella dei lavoratori dei trasporti, per quella dei ferrovieri. Tutte e tre sono all’Inps, ma con gestioni separate autonome. Anche loro hanno problemi seri di riequilibrio finanziario, ma, come i ferrovieri, hanno anche una normativa diversa. È rimasto irrisolto, infatti, a questo proposito, il problema delle eguaglianze normative e quindi dei trattamenti tra settore privato e pubblico. Con parità di contribuzione e d’anzianità, le pensioni dei pubblici sono più alte, dal 30 al 40%, rispetto a quelle dei privati. Nessuno vuole pensioni eguali per tutti, ma pensioni con un valore legato ai contributi che hai pagato e all’anzianità. A parità di condizioni dovresti tendenzialmente percepire la stessa pensione». Il centrosinistra dovrebbe far proprie queste richieste? «Viviamo un periodo in cui tutti si dicono riformisti. Bisognerebbe distinguere tra riformismo di destra e riformismo di sinistra. Quello di sinistra dovrebbe interessarsi, appunto, dei temi dell’eguaglianza e dell’equità. Un tema ben più importante delle pensioni d’anzianità, visto che dopo la riforma Dini c’è un coefficiente d’abbattimento oltre che l’allungamento dell’anzianità. Se tu vai in pensione prima, la tua pensione è decurtata. C’è da aggiungere che quelli che lasciano il lavoro, nel settore privato, con pensioni d’anzianità, o sono prepensionati o sono in una condizione di mobbing: vengono costretti ad andare in pensione. Questo tipo di pensione d’anzianità è stata concepita come protezione sociale per persone anziane che perdono il lavoro e in assenza d’ammortizzatori sociali degni di questo nome». Una concertazione su questi temi sarebbe in ogni caso doverosa? «È evidente che qui non si può procedere con la contrattazione tra le parti. Non credo però, in generale, che si debba ripercorrere il rito della concertazione. La considero una modalità specifica, per affrontare situazioni particolari. Nell’ultimo quarto di secolo solo due situazioni hanno richiesto una soluzione concertativa. La prima volta quando si è trattato di ridurre un livello d’inflazione che si mangiava i salari. La seconda in occasione dell’ingresso della lira nell’euro. Trasformare però la concertazione in una modalità normale, ordinaria, è per me un errore. Perché riduce lo spazio della contrattazione autonoma, quella contrattuale tra le parti e aumenta invece la regolazione eteronoma, quella che si decide in Parlamento. Perché burocratizza e soprattutto centralizza la dialettica sociale, con una serie di vincoli e parametri. Con effetti negativi, come quelli dati dalla tendenza in atto preoccupante, alla perdita del potere d’acquisto dei salari. C’è anche un problema per l’apparato produttivo. Il fatto che i salari stiano regredendo fa venire meno una sollecitazione anche all’innovazione produttiva, per rendere più competitive le imprese». C’è di mezzo anche la politica dei redditi… di tutti i redditi…. «Ripeto: io capisco la concertazione quando devi entrare nell’Unione europea o quando l’inflazione è al 22 per cento. Non come metodo perenne. Oltretutto i vincoli che sono stabiliti, ad esempio su prezzi e tariffe, sono poi sovente facilmente scavalcati, anche perché sottoposti alle leggi del mercato. I vincoli assunti dal sindacato invece diventano cogenti». Sarebbe il caso allora di riformare il modello contrattuale deciso nel patto del 1993? «Il modello contrattuale si riforma contrattando. Oggi è previsto un livello nazionale, poi un secondo livello che riguarda il venti per cento dei lavoratori. E’ un modello in crisi per conto suo. I rischi di burocratizzazione non nascono dalle esigenze di regolare il conflitto, per non avere solo il conflitto distruttivo. Mi preoccupa il fatto che l’adozione preminente del metodo della concertazione, comporti la tendenza ad un trasferimento crescente ad una sede impropria di decisioni. Con un peggioramento delle politiche distributive. E così accompagni l’economia al declino». Più mani libere per il sindacato, insomma? Più mani libere, ma non scriteriatamente. Il sindacato è in grado, autonomamente, di fare una politica di moderazione salariale. Però la decide lui. Insomma farei della concertazione un uso più sobrio.
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