12/4/2005 ore: 11:17

"Intervista" N.De Franco: «Hanno dato l’Olimpico agli estremisti»

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    martedì 12 aprile 2005
      Intervista

      LA DENUNCIA DEGLI ADDETTI ALL’ORDINE PUBBLICO
      «Hanno dato l’Olimpico agli estremisti»
      Un ispettore di polizia: ci hanno ordinato di abbandonare le curve
        Francesco Grignetti

        ROMA
        I caschi, i manganelli, i petardi. E poi le botte, tante, fuori o dentro i cancelli, previste o inaspettate, date o ricevute. Le curve degli stadi italiani diventano sempre più, inesorabilmente, luoghi di violenza. La politica s’indigna. I commentatori, pure. E poi tutto torna come al solito. Nicodemo De Franco, 50 anni, ispettore capo della polizia di stato, sindacalista (è segretario provinciale a Roma del Silp-Cgil), lavora al commissariato Prati. Sono venti anni che ogni domenica sale e scende per i gradoni dello stadio Olimpico. E la vede nera.
          Ispettore De Franco, lei è un poliziotto qualunque.
            «Sì, lavoro in un commissariato come tanti. L’ordine pubblico è soltanto una delle nostre attività. Siccome però siamo al quartiere Prati, e l’Olimpico è nella nostra zona, la domenica da sempre siamo tutti là».
              In quanti?
                «Noi del commissariato, una quarantina. Poi ci sono i colleghi, delle varie forze di polizia, di rinforzo. Intendo quei reparti che si vedono schierati con caschi e manganelli».
                  Ah, lei ci va in borghese?
                    «Bisogna fare un passo indietro: per tantissimi anni, fino a poco tempo fa, noi del commissariato Prati la domenica “vivevamo” dentro la curve. Mantenevamo un rapporto aperto, direi quasi di dialogo, con le tifoserie. Conoscevamo i capi, loro conoscevano noi. Si parlamentava. Oggi è inimmaginabile, perché in curva ci si entra soltanto per usare i manganelli, ma fino a poco tempo fa il clima era ancora diverso. Ricordate quel personaggio stravagante che era Cavallo Pazzo? Aveva preso l’abitudine, ogni domenica, Roma o Lazio, di saltare il fosso e invadere il campo. Bene, noi entravamo in quattro, lo acciuffavamo e lo portavamo via di peso. E nessuno si azzardava a torcerci un capello. Lo stesso per certi striscioni: quando comparivano, si andava, si discuteva, e alla fine lo striscione lo ritiravano. L’ultima croce celtica l’abbiamo fatta togliere noi».
                      Quest’epoca, però, di rapporti più umani tra tifosi e poliziotti, sembra finita.
                        «Tramontata. Fu deciso, in alto, di abbandonare le curve. Nel frattempo avveniva che le tifoserie si “gerarchizzavano”. La Nord dei laziali ormai è tutta gerarchizzata e dipende da capotifosi che sono politicizzati. La Sud dei romanisti è sulla stessa strada, ma ancora il fenomeno non è compiuto. Allo scorso derby è comparso uno striscione laziale che criticava i romanisti perché ancora non avevano espulso del tutto i “Feddayn”, che sono romanisti di altra estrazione politica».
                          Andiamo a domenica, Lazio-Livorno. C’era anche lei allo stadio?
                            «Sì, c’eravamo tutti noi quaranta del commissariato e i colleghi dei reparti mobili che saranno stati quattro o cinquecento. Si sapeva che sarebbe stata una prova difficile. Era una partita già rinviata una volta. Le tifoserie avevano annunciato che avrebbero mostrato le unghie. Divise su tutto, dalla politica innanzitutto. E però tra i laziali c’erano pure dei romanisti, uniti più dalla fede politica che da quella calcistica».
                              E sono stati tafferugli.
                                «Di questo, il giorno dopo, non mi piace parlare. Io sogno ancora uno stadio che torni com’era, quando noi poliziotti giravamo tra i tifosi e non abbandonavamo le curve a sé stesse. Luoghi dove non si capisce più chi comanda. O meglio, dove si capisce benissimo e non è lo Stato».
                                  D’altra parte, a Roma, in una famosa notte, i capotifosi di Roma e Lazio hanno decretato di comune accordo la sospensione di una partita.
                                    «E chi se la può dimenticare, quella notte? Sulla base di una falsa notizia, imposero la sospensione della partita. Eppure c’era il questore sul campo. E c’era il prefetto al microfono, me lo ricordo bene, che invitava tutti alla calma, garantiva che non era accaduto nulla, e invitava a riprendere il gioco. Andò diversamente. Ma dove capita mai in tutt’Europa, mi domando, che una partita si sospenda mentre i responsabili dell’ordine pubblico chiedono l’opposto? Dov’è che si permette a gruppi organizzati di tifosi di vendere il proprio merchandising in barba alle società? Dov’è che dalle radio private, finanziate dai proventi di cui sopra, si inciti alla violenza?».

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