Intervista a cura di Oreste Pivetta
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26 marzo 2004 Di fronte alla crisi delle esportazioni, al mercato interno che crolla, ai redditi penalizzati, una politica per il welfare e l’innovazione Ha ragione Montezemolo: tornare allo spirito del dopoguerra
MILANO Professor Giulio Sapelli, il 2004 sarà un anno di ripresa per gli altri. Invece noi siamo fermi. Perchè l’azienda Italia non cresce più? «Per tante ragioni. Intanto perchè comincia a farsi risentire nella composizione del prodotto interno lordo la mancanza della grande impresa. Poi perchè le esportazioni sono in calo. Si continua a perdere su questo fronte, non abbiamo seguito l’esempio di altri paesi europei, degli Stati Uniti o dell’Australia, che vent’anni fa hanno imboccato i sentieri di una tecnologia più avanzata per un prodotto a più alto valore aggiunto, rispondendo all’inevitabile rincorsa degli asiatici o dei latino-americani in vari settori, dal tessile alla piccola meccanica. Senza dimenticare l’agricoltura. Arriviamo alla terza questione, che rappresenta qualcosa di socialmente esplosivo, oltre che di fondamentale per una politica riformista: il mercato interno si è via via contratto». Mentre i consumi interni erano stati motivo di crescita negli anni sessanta... «Certo. L’Italia s’è arricchita grazie alle esportazioni ma anche costruendo un mercato interno solido e positivamente dinamico. Dopo il ‘93, e dopo quegli accordi, si è fatta politica dei redditi solo in una direzione, via via riducendo la parte di ricchezza che doveva passare dal prodotto interno lordo al salario. Il lavoro è diventato sempre più precario, la gente ha risparmiato meno per la semplice ragione che ha sempre meno da risparmiare, il regime pensionistico è peggiorato comprimendo il reddito post-lavoro...». Tempi grami che non promettono un futuro migliore... «Andrà peggio. È facile prevedere che le esportazioni caleranno ancora, oltretutto nella eventualità concreta di una risalita dei tassi d’interesse per via della ripresa europea e americana. Con un mercato interno ancora, di conseguenza, più piccolo, più penalizzato. Calo di lavoro insomma, in anni di stagnazione con la prospettiva di una pesante recessione». Come si può rimediare? «Innovando tecnologie e prodotti, difendendo e aumentando i redditi da lavoro e da pensione». Giuseppe De Rita calcola però che non ci siamo impoveriti. Si riferisce alle classi medie, contro una sensazione peraltro assai diffusa. «De Rita abita nel paese che non esiste. De Rita pensa che la Fiat possa venire sostituita dai produttori di barolo o dai cercatori di tartufi. L’impoverimento invece non si discute». Oggi sarà giornata di sciopero generale, contro la riforma pensionistica del governo ma anche per nuove politiche economiche. Sono buone le ragioni di chi sciopera? «Lo sciopero è sacrosanto. Perchè difende il lavoro, perchè chiede che non si colpisca ancora il mercato interno, contro una riforma delle pensioni insensata. S’era fatta una riforma, la Dini, con un accordo tra le parti sociali. Si doveva attendere, come stabilito, la verifica del 2005. So che non si può chiedere a un padrone di approvare uno sciopero, ma un imprenditore intelligente e lungimirante dovrebbe capire che questo sciopero lo fanno anche per lui. Uno sciopero per il lavoro e l’impresa». Tutto lascia concludere che il centrodestra abbia fatto fallimento... «Sono mancate politiche fiscali tese all’innovazione delle imprese. Hanno smantellano quanto aveva creato Vincenzo Visco per incentivare l’investimento tecnologico. Hanno piuttosto incentivato le imprese a capitalizzare. Non si è aumentata la spesa pubblica per ricerca e sviluppo. Non si è negoziato in difesa del monte salari e del monte stipendi... Si va allo scontro su una riforma delle pensioni che se fosse approvata così sarebbe un disastro». Il nuovo presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo, ha detto proprio ieri che bisognerebbe ritrovare lo spirito del dopoguerra. Ha invitato a recuperare «alcuni valori e lo spirito del dopoguerra mettendoli a disposizione del Paese». È un invito da condividere? «Benissimo. Ha perfettamente ragione Montezemolo. Ma che cosa ha prodotto lo “spirito del dopoguerra”? La scala mobile, un sistema previdenziale, azioni per trasferire più reddito dal capitale al lavoro, rovesciando quanto aveva provato a fare il fascismo. La ricetta del nostro miracolo economico era semplice: più esportazioni, ampliamento della mercato interno, più occupazione, più garanzie per il lavoro, più welfare. In fondo è quanto suggeriscono oggi anche gli economisti più avvertiti, è quello che dice ad esempio Amartya Sen». Tutto il contrario di quanto mi sembra faccia questo governo. Questa crisi, che è ormai un’emergenza, potrebbe destrutturarlo? «Ci sono anche all’interno di questa maggioranza, al suo centro, sensibilità diverse. Penso all’Udc, che non può non ricordare l’attenzione ai grandi temi della politica sociale da parte della Dc degli anni cinquanta, o almeno dell’ala riformista di quella Dc. Non parliamo di solidarietà nazionale. Ma credo che di fronte a prospettive così fosche, questo centro moderato dovrebbe sentirsi, per responsabilità nazionale, più vicino al centrosinistra».
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