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martedì 20 dicembre 2005
Pagina 2 - Primo Piano
Il Governatore getta la spugna
DENTRO IL PALAZZO - LE GRANDI ILLUSIONI DEL BANCHIERE CENTRALE CONVINTO CHE LE BATTAGLIE DI CARTA STAMPATA FINISCANO NEL CESTINO
Una resistenza solitaria da ultimo giapponese
personaggio Luigi La Spina
Dove sta la verità nei grandi palazzi del potere? Certo, bisogna cercarla nelle stanze di quelli che contano, tra le carte di quelli che sanno, nelle parole dei protagonisti.
Si può indagare persino negli occhi dei testimoni eccellenti, quando il riserbo suggella le bocche. Oppure si può trovarla per caso, illuminata da una frase lasciata cadere così, nell’ascensore del piano nobile di un antico palazzo, a Roma, in via Nazionale. Borbottata da un vecchio commesso che non sa più se deve commuoversi o se deve offendersi e, forse, pensa che deve fare tutte e due le cose: «Dottore, c’era sempre qualcuno che soffiava, soffiava, soffiava e, lui, gonfiava, gonfiava, gonfiava».
Il perché della resistenza accanita e incomprensibile di Antonio Fazio, protratta per mesi e mesi, sorda a qualsiasi appello, sprezzante delle più elementari convenienze, sta proprio lì, in quello che un grande scrittore inglese, Graham Greene, chiamava «il fattore umano». Quella fragilità dell’anima che nessuno si sarebbe aspettato dall’ultima monarchia italiana, quella che è finita ieri, alla metà di un pomeriggio dedicato allo shopping nella settimana di Natale. Sì, perché davanti a quella grande porta di legno, vigilata dalla testa marmorea e lucida del cranio di Guido Carli, i fedelissimi, gli amici di antica e di fresca data, i puntuali signorsì del potere, ormai da tempo avevano scavato una trincea, un vallo sempre più profondo tra la realtà e l’apparenza, tra la verità e la bugia, tra grandi progetti e squallidi affari. Solo così si può capire, si può tentare di capire, la sindrome dell’«ultimo giapponese» di Fazio, chiuso nella boscaglia delle sue carte, convinto fino all’ultimo di poter resistere a quella che considerava solo una battaglia mediatica, da vincere con l’ostinazione, da sopportare con la pazienza di chi, nato in provincia, sa attendere.
Il tempo, del resto, non l’aveva mai tradito. Lui aveva saputo aspettare quando, semplice ragioniere, lo aveva portato in America, allievo di grandi maestri, come Modigliani. Poi lo aveva catapultato, cattolico devoto, in uno dei templi della finanza laica, quella Banca d’Italia accusata perfino di simpatie massoniche. E sempre il tempo si era divertito a sollevarlo fino alla massima carica, quella di governatore, un sogno proibito anche nelle sue più benevole notti.
Perché, allora, non fidarsi ancora di quel tempo che gli era stato sempre così amico? Perché non credere che dovesse «passare la nottata», come diceva un altro meridionale come lui, Eduardo De Filippo? Perché non pensare che «le battaglie di carta stampata - come diceva - sono destinate a finire nel cestino della carta straccia»?
Invece, è stato proprio il tempo a tradirlo, questa volta. Con un’altra contraddizione che fa di lui un personaggio dalla figura di un centauro, un uomo che ha fatto della conciliazione degli opposti il paradigma della sua fortuna e della sua sfortuna.
È stato proprio lui, in fondo, ad autodefinirsi in una vecchia intervista a La Stampa, quando, a proposito della sua formazione culturale, disse: «Sono un cristiano che conosce l’islamismo». Si riferiva alla contraddizione di un keynesiano che aveva studiato il monetarista Milton Friedman, ma quella battuta si sarebbe rivelata profetica, perché è stato il segno dell’ossimoro a caratterizzare il suo destino.
Chi l’avrebbe detto che quell’uomo schivo, nominato al posto di Ciampi perché lontano dalle lusinghe della politica, sarebbe caduto nella mani di chi gli faceva balenare i massimi palazzi del potere, da quello della presidenza del Consiglio a quello sul colle del Quirinale? E chi l’avrebbe detto che una moglie riservata e tranquilla come Cristina Fazio, così aliena dalla mondanità di Donatella Dini, non ultimo motivo per la bocciatura dell’allora direttore generale, nel ‘93, alla carica di governatore, si sarebbe trasformata in una improbabile ninfa Egeria del mondo finanziario, dispensatrice di imbarazzanti espressioni di affetto e di trepide cure per la sorte di un molto discutibile raider bancario.
Come è stato possibile che l’arbitro del sistema si sia trasformato in un tifoso così partigiano da non accorgersi che la sua squadra era composta da giocatori fasulli, con ambizioni spropositate rispetto a mezzi non solo modesti, ma posseduti fraudolentemente? È possibile che il narcismo del potere sia così travolgente? Sì, è possibile se, come è stato fatto negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi, lo si è alimentato in via Nazionale ogni giorno, nascondendo le cattive notizie, edulcorando i giudizi perplessi, suggerendo interpretazioni favorevoli. Allora la solitudine, che è già la compagna obbligata del potere, diviene una maschera che illude sempre di più fino a convincere di poter resistere a tutto, a tutti. Fazio si era persino legato alla catena degli orari, al calendario degli impegni, alla ragnatela delle procedure per convincere e autoconvincersi dell’incrollabilità della sua poltrona. Dell’impossibilità di arrendersi a «quel complotto dei poteri forti alleati con alcuni ex amici» che, nella sua mente, era così pervasivo da non permettergli di scoprire la vera faccia dei suoi nuovi amici, pretendenti a un posto in quel salotto buono che, in fondo, aveva sempre ritenuto anche lui un provinciale, insomma, un parvenu.
Come poteva non pensare che, ancora una volta, il tempo gli avrebbe concesso di sconfiggere quei professorini della Bocconi con la puzza sotto il naso, alti, eleganti, senza panciotto e, persino, senza accento dialettale? Così, quando il vecchio suo amico torinese, l’avvocato Paolo Emilio Ferreri, consigliere anziano del collegio che doveva giudicarlo, gli ha fatto capire ieri che la granitica maggioranza in suo favore si era sfaldata, la reazione di Fazio è stata di stupore prima che di amarezza. Il vecchio commesso, annunciandolo al governatore, si era accorto che quel gentiluomo subalpino non soffiava, ma non aveva visto l’ago che spuntava nella sua mano.
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