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"Cult&Info" Una dinastia corsara di «facili guadagni» (F.Ceccarelli)

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12 Febbraio 2004

personaggio

GOL E BOND, QUADRI DI PICASSO E CASTELLI NOBILIARI COMPRATI E IPOTECATI IN QUESTA SAGA DI «GENTE NOVA»
Una dinastia corsara di «facili guadagni»
Dai tre giorni di carcere dopo lo scandalo Ferruzzi
alla creazione di un impero fondato sui debiti


di Filippo Ceccarelli
IL boato degli stadi, il fruscìo dei quattrini e il fetore del bugliolo, che non usa più, ma nell’immaginazione resta il Wc delle carceri. Chissà come verranno rubricati, tra una cinquantina d’anni, i gloriosi predoni italiani del calcio e dell’economia come Sergio Cragnotti...
Gol, jet, bond, crack, splash, nel senso di caduta nel fango, e ogni tanto pure la galera: entro questi confini, negli Anni Novanta, si è venuta a formare una razza di personaggi con cui l’Italia di oggi comincia a fare i conti. E sono salati: per loro e per l’Italia.
Di questa specie il ragionier Cragnotti è un esemplare assai rappresentativo. Lo guardi, abbronzato; leggi della sua famigliona, pure inquisita (moglie, figli, figlia, genero); apprendi delle coppe vinte con la Lazio, dei castelli nobiliari bruscamente acquisiti e poi ipotecati, dei quadri di Picasso che chissà ora dove sono, della tenuta di Montepulciano, della busta nera dell’immondizia in cui erano nascosti i documenti contabili; e subito ti chiedi cosa c’è dietro Cragnotti. Che cosa è rimasto, se mai c’è stato qualcosa, oltre a quel coraggioso nulla che per vent’anni gli ha messo le ali ai piedi. E gli ha offerto la vittoria sulle gradinate dell’Olimpico, il successo in Borsa, l’ammirazione in tribuna Vip.
E torna il solito ritornello, anche un po’ classista: «Gente nova e sùbiti guadagni». Ecco, questa «novissima» classe amante del profitto ha come modello Berlusconi, ma facilmente si accontenta di Cecchi Gori. Con il senno del poi si risfogliano le collezioni dei giornali di dieci anni orsono e si resta sgomenti di fronte a titoli come: «La Cirio di Cragnotti sfida la Parmalat». E quale mai sfida sarà stata quella?
Risposta: era la sfida per il latte, «Cragno» s’era appena comprato la Polenghi; e forse già puntava sulla Centrale di Roma. L’ennesimo affare corsaro. E allora di nuovo, come nel caso sciaguratissimo di Tanzi, con il dovuto smarrimento si avverte tutta la tensione fra la concretezza del prodotto, il latte, la frutta, o il barattolo di pelati, e l’inconsistenza, il vuoto, l’infondatissima «fuffa» dei loro venditori.
Dalla Ciociaria (Bpd) l’avevano catapultato direttamente in Brasile, dove Cragnotti conquistò il vecchio Ferruzzi. Fin da allora, in attesa di trattare con libici, americani e kenyoti saliva sugli aerei con la naturalezza del conquistatore. Di sé ha dato una volta la seguente, scultorea definizione: «Un uomo che vive nel futuro». Ma quando acquistò la Cirio rivolse lo sguardo anche verso il passato annunciando: «Il nostro obiettivo è quello di far tornare la gente nei campi». Vale giusto la pena di aggiungere che negli Anni 90 non era difficile trovare gente disposta a credergli.
Il personaggio del resto ha sempre avuto una certa vocazione oracolare. L’«ipse dixit» di Cragnotti comprende una varietà di espressioni a loro modo rivelatorie: «E’ una sfida», «è ora di smetterla», «è il momento che le istituzioni si diano da fare», «è vergognoso che», «voglio continuare a credere», «vorrei poter arrivare perfino», «sono stufo», «non intendo mettere in crisi il mio modello di vita», «sogno poco. Sognare stanca e ruba energie», «rifarei tutto».
Cragnotti, in realtà, aveva capito molti segreti di quell’entità fraudolenta e ghiotta di miti che per pigrizia si continua a chiamare società dell’immagine. Così, il piccolo borghese di Porta Metronia arrivò a rivendicare al suo cognome radici greche; e si compiacque che il suo personalissimo oroscopo (9 gennaio, tenace Capricorno) coincideva con quella della squadra che un giorno avrebbe presieduto, ovvero dominato, fino a farle ottenere lo scudetto, più due coppe Italia, due coppe di Lega, una supercoppa europea e una coppa delle coppe, insomma il Santo Graal per la tifoseria dell’aquila biancoceleste.
Enrico Cuccia, che con il mondo magico qualche dimestichezza doveva avere, lo definì «una fattucchiera». Mentre Raul Gardini, per il quale Cragnotti apparecchiò l’operazione Enimont, «un mago». Ora: Cuccia è morto, Gardini si è sparato, e lui ha brillantemente patteggiato. Tre giorni appena in gattabuia. E poi ha ricominciato come se niente fosse, sotto l’ala di Cesare Geronzi e della Banca di Roma.
E stava per venire il bello. Era destino di Cragnotti infilarsi in quella fornace di potere primordiale, interessi miliardari e passioni al limite del delirio che è il calcio evoluto. Bilancio stilato prima del tempo, con la consueta umiltà: «Dopo Berlusconi sono stato il manager più innovativo. Quando bussai ho trovato un calcio che ondeggiava tra l’etico e il sociale. L’ho preso di petto, l’ho rivoltato come un guanto, ho introdotto il business. Prendevo e cedevo, cedevo e prendevo...».
Nella modernità opulenta e secolarizzata gli dei sono finiti nei
Circenses, e i loro rituali si svolgono in prima serata nel recinto sacro degli stadi. Bene: Cragnotti non esitò un attimo a trasformarsi in un capo tribù post-moderno, qual è oggi il presidente di una società calcistica. Mestiere tra i più ingrati, se non altro perché occorre essere leone nelle curve, volpe nei consigli d’amministrazione, acrobata nei rapporti con le autorità e mercante di carne umana nelle compravendite dei vari Vieri, Nedved, Veron, Nesta, Crespo. Forse era troppo, anche per lui. Alla fine i tifosi gli facevano la posta sotto casa, al suono di trombe, lanci di petardi e muri imbrattati.
Quando fu pizzicato per una tomba che si era fatto costruire in deroga, nell’affollatissimo camposanto capitolino, si limitò a rispondere: «Credo di essere il presidente di una società importante della capitale, abbiamo fatto tanto per la città. Possiamo anche riposare in pace». Reduce dalle «
lampados» com’era, sembrava una bugia pure quella. O forse no. Vatti a fidare di Cragnotti, e di tanti ormai come lui.

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