4/1/2007 ore: 11:05

"Cult&Info" Paul Ginsborg: La democrazia? Non c’è

Contenuti associati

    giovedì 4 gennaio 2007

    Pagina 23 - Cultura/Orizzonti



    Paul Ginsborg nel suo nuovo libro
    sostiene che il sistema democratico
    ha trionfato soltanto in apparenza nel
    mondo. E che gli sviluppi dell’economia
    mondiale lo rendono sempre più fittizio
    e asfittico. Ecco la sua «ricetta»
    per rilanciarlo
      La democrazia? Non c’è
      E al mercato non piace

      di Bruno Gravagnuolo

      L’incipit è fascinoso ed elegante. Una serata piovosa nella Londra del 1873, con Marx e John Stuart Mill che si incontrano nella casa di quest’ultimo in Victoria Street, accompagnati dalle rispettive figlie (Eleanor Marx ed Helen, figliastra di Mill). Trasandato Marx dal pesante accento tedesco, inglesissimo e impeccabile Mill. Due tipi diversissimi, ma con molte cose in comune. Ad esempio l’interesse per la democrazia e le forme economiche. Infatti i due daranno vita a un teso dibattito da salotto, ma intriso di futuro e non senza screzi, sul futuro della democrazia, giustappunto. E sul suo rapporto, modernamente imprescindibile, con la civiltà di massa del lavoro e le sue rivoluzioni industriali. Eccovi in breve il prologo di un appassionante libretto fresco fresco dell’anno appena scorso, che si raccomanda a chi della democrazia non abbia un concetto mummificato e quietista,bensì dinamico e di cittadinanza. E anche a chi della democrazia voglia riesaminare sine ira et studio l’enigma e i paradossi.

      Si intitola La democrazia che non c’è (Einaudi, pp. 152, euro 8) e lo ha scritto Paul Ginsborg, che non ha bisogno di tante presentazioni, essendo come è noto uno dei più noti storici contemporanei, specialista dell’Italia, studioso della famiglia, analista del berlusconismo e della società mediatica, nonché teorico dei «girotondi», a proposito dei quali coniò una categoria originale e destinata a rimanere: «i ceti medi riflessivi». Ebbene Ginsborg, già professore a Cambridge e oggi contemporaneista a Firenze, immagina all’inizio del suo pamphlet che Marx e Mill, spiriti magni dell’era vittoriana, si incontrino e si scontrino. Per convergere su alcune cose e divergere su altre. Prima di tutto convergono sul fatto che il capitalismo ha inaugurato un’era di sviluppo inaudito, che racchiude nuove sfide non puramente comprimibili nelle architetture politiche tradizionali ed elitarie. Che esso introduce nuove schiavitù, tra le quali il lavoro salariato. Nuovi squilibri nella produzione e nello scambio, che ormai avvolgono tutto il pianeta. Ed entrambi poi convergono sul fatto che tra democrazia ed eguaglianza c’è un rapporto strettissimo, stante che la prima è nulla senza la seconda. Ma qui cominciano gli screzi. Mill conosce bene le posizioni di Marx, e grosso modo anche quelle espresse sulla Comune di Parigi, sorta dopo la catastrofe di Sedan per la Francia. Ma al riguardo, e pur favorevole all’intonazione federalista e anticentralista di Marx, dissente fermamente dalla ditattura democratica del proletariato marxiana. Che poi era nient’altro che un sistema roussoiano radicale, con la nomina e la revoca di delegati politici non politici professionisti, ciascuno dei quali pagati con un salario operaio. Sicché il dissenso è sia sull’egualitarismo radicale, sia sulla «democrazia commissaria», sorta di sovietismo ante litteram alla quale non per caso si riferirà il Lenin di Stato e Rivoluzione.

      Mill è contro la violenza dittattoriale, contro il rifiuto della rappresentanza durevolmente delegata, e anche contro lo statalismo economico e centralizzato di Marx, benché impiantato su una democrazia diretta. E Marx? Come ribadirà anche nell’epilogo finale del libro - dove Mill e Marx si reincontrano in Paradiso! - egli rigetta il nesso tra le degenerazioni comuniste e le sue idee, e conferma che contemplava anche la via pacifica. Però non molla sulla necessità di tener saldo il potere conquistato contro il contrattacco fatale delle classi possidenti. E sopratutto Marx si fa forza di alcune sue classiche previsioni. Prima fra tutte la globalità dinamica del sistema capitalista, più che mai all’opera dopo il 1989, e la penetrazione della forma di merce in tutti i pori della vita quotidiana, al punto da svuotare di senso autonomia degli individui e forme democratiche. Quanto a Mill, aveva tutte le ragioni? Non tutte, nota giustamente Ginsborg fin dalla sua ricostruzione fantastica del «dialogo» (fantastica ma rigorosa in quanto basata su testi che testimoniano di un vero dialogo a distanza). Il primo torto di Mill era quello di credere a un sistema di rappersentanza basato sulla cultura e il censo, dove il voto di alcuni valeva il triplo! E ciò benché lo stesso Mill fosse poi un paladino dell’emancipazione femminile, che propose l’adozione del termine «persona» al posto di citadino maschio nella Costituzione inglese. Inoltre Mill presumeva che le comunicazioni e i treni potessero di per sè accorciare distanze di potere ed eliminare arbìtri, rendendo la giustizia e l’interesse collettivo trasparenti. Ciòndimeno però aupicò le cooperative in economia, come forme di socializzazione economica a sostegno della democrazia, e criticò - a differenza di Marx - l’industrialismo spinto con i suoi effetti perversi (celebre in On Liberty la difesa delle tribù indiane e del diritto di ciascuno a vivere una vita diversa dal progresso). In più, costante fu in Mill il richiamo al contrasto tra democrazia e sua negazione di fatto. L’appello all’«individuo critico contro il gregarismo di massa. E la denuncia di ogni autorità non razionale, non basata cioè su funzioni e scopi sociali riconosciuti democraticamente. Insomma, la critica del principio di autorità, in una chiave razionalista che potrebbe ricordare discorsi di più di un secolo dopo: Adorno, Rawls, Habermas, teorici ciascuno a modo suo di una «comunicazione democratica libera da dominio».

      E qui inizia però l’affondo teorico di Ginsborg, quello portato avanti in prima persona e non per via indiretta o fantastico/esegetica. Di che si tratta? Nient’altro che della critica alla democrazia così com è, e che per Ginsborg non c’è, o quasi. Perché non c’è? Per una ragione semplice e incontrovertibile. Perché la vittoria della democrazia liberale, che pure di fatto ha imposto globalmente il suo segno sulle ceneri della catastrofe comunista, va oggi di pari passo con diseguaglianze abissali, torpore e passività di masse pur risvegliate ai diritti sociali, guerre imperiali e negazioni del diritto internazionale in un mondo che a differenza della prognosi ottimista di Kant non è affatto cosmopoliticamente unificato su principi e valori, malgrado l’Onu. In altri termini, siamo ancora lì, al dibattito Marx-Mill, con in più l’installarsi al vertice del potere di oligarchie direttamente espresse dall’establishment capitalista. Dalla variante cristiano fondamentalista di Bush Jr. a quella mediatico-populista e aziendalista di Berlusconi. La ricetta di Ginsborg? Tanta società civile, ma non in senso economico, bensì di cittadinanza: dalla famiglia, alle associazioni, alla democrazia deliberativa, alle Onlus, alla cooperazioine, ai movimenti. E l’Europa? Decisiva per Ginsborg, ma non nella forma attuale, sequestrata com’è dalla tecnocrazia senza politica democratica, e inchiodata a parametri di convergenza monetaria senz’anima (e Francia e Olanda l’hanno rifiutata). In sintesi ci vuole un innesto massiccio di democrazia diretta per Ginsborg, come nel caso del Forum sul bilancio partecipativo di Porto Alegre in Brasile, dove i quartieri cittadini eleggono una quota di deputati per deliberare il bilancio in funzione di «autority». Altra risorsa, ignorata dalla sinistra almeno dai tempi del piano Meidner in Svezia: la democrazia economica. In direzione delle cooperative, della democrazia industriale, del potere di intervento degli utenti sugli enti pubblici. E ovviamente la scuola che deve essere pubblica, laica e pluralista, contro il fondamentalismo privatistico.

      Tutto giusto e non si può che consentire. Con una sola osservazione. Mancano nel «reticolo» di Ginsborg i partiti, istituti principe della società civile democratica. Comunità insostituibili di partecipazione, selezione di élites, programmi e interessi. Certo partiti non lottizzatori, né invadenti e affaristici, e meno che mai aggregati di opinione o cartelli elettorali che ci farebbero tornare all’Italia notabilare dei vecchi partiti parlamentari. Ebbene la «democrazia che non c’è», senza partiti veri e radicati e indipendenti dalle lobbies, ci sarà ancora meno. E ancor meno ci sarà la sinistra. Garantito.

    Close menu