14/4/2006 ore: 11:50

"Cult&Info" La lezione di Keynes per l’era dell’incertezza

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    AFFARI&FINANZA di luned? 11 aprile 2006
      COPERTINA e pagina 6
        L’anniversario
          La lezione di Keynes per l’era dell’incertezza

          MARCELLO DE CECCO
            La Teoria Generale ha 70 anni. Secondo alcuni li dimostra tutti, secondo altri ? un libro che pu? fornire ancora utili interpretazioni dell'esperienza dei paesi a capitalismo maturo e precetti per la condotta della politica economica negli stessi paesi.

            Il libro pi? famoso di Keynes ha una economia chiusa come punto di riferimento. Prima stranezza, per un uomo che nella sua vita si rapport? innanzitutto al sistema economico internazionale.

            Essa si spiega guardando la data del libro: il 1936 ? un anno centrale di quella crisi esistenziale dell'economia mondiale che era cominciata con la fine della prima guerra mondiale e il tentativo di ritorno allo status quo prebellico. Tentativo deprecato a gran voce da Keynes sin dal 1920, come votato al fallimento e debitamente fallito negli anni trenta.

            Nel 1936 Keynes scriveva dunque per un pubblico di economisti, politici e uomini di cultura ormai rassegnati a concepire la politica economica come destinata quasi esclusivamente ad operare entro i confini nazionali. Il commercio internazionale si era ridotto ad essere una frazione di quel che era stato fino agli anni venti, e i movimenti di capitali erano ormai assoggettati a controlli severissimi in quasi tutti gli stati europei.

            A guardar bene, tuttavia, la sua utilit? la Teoria generale la conserva anche per il tempo presente. Innanzitutto per la metodologia che suggerisce, che ? quella di una analisi economica basata sulla vera incertezza, su stati del mondo che hanno uguale probabilit? di verificarsi o no, o che sono assolutamente imprevedibili. La teoria della probabilit? che attualmente ? alla base della massima parte dei calcoli economici parte invece dalla ipotesi che le probabilit? che un evento si verifichi sono calcolabili. Contro il verificarsi di tale evento ci si pu? assicurare. Salvo poi, da parte degli assicuratori, ridursi alla necessit? di affidarsi a loro volta ad "assicuratori di ultima istanza", come i Lloyds di Londra e le compagnie di riassicurazione, che esercitano in grandissima scala l'arte della scommessa.

            Dal dominio dell'incertezza discende il capovolgimento della teoria classica, con gli investimenti che determinano i risparmi.

            E' questa la chiave di volta che regge l'edificio analitico keynesiano, questo il vero messaggio rivoluzionario del libro di Keynes, al quale gli economisti ortodossi reagirono con violenza quando fu enunciato. Nel corso dei decenni, questa eresia essi sono riusciti ad esorcizzarla dai libri di testo, anche se non hanno pi? la coerenza, che Einaudi ebbe allora, di negare che i prestiti creino i depositi bancari. Eppure, ? proprio questa l'eresia primaria, dalla quale deriva l'altra che pi? li offende.

            Ma anche la assoluta preminenza dell'obiettivo della piena occupazione, che ? il messaggio forse pi? noto della Teoria generale, ? bene riaffermarla in questi tempi di precariet? e di forte disoccupazione nei principali paesi dell'Europa continentale. Per Keynes la piena occupazione ? la precondizione per il mantenimento della democrazia e della libert? nei paesi capitalisti maturi, mentre una disoccupazione elevata in presenza di forti indennizzi ai disoccupati, come accade nei paesi europei all'ora attuale, genera pressioni che divengono intollerabili sul bilancio pubblico e sui redditi degli occupati che devono mantenere i disoccupati.

            Se non si crede alla preminenza delle decisioni di investimento nel meccanismo di creazione del reddito, tuttavia, nemmeno si pu? credere alla piena occupazione come obiettivo primario di politica economica.

            In verit?, il metodo fornito da Keynes nella Teoria generale ? per la gran parte dei lettori ancor oggi controintuitivo. Migliaia di anni di storia legati all'agricoltura di sussistenza hanno ancorato gli abitanti delle zone temperate ad una visione del mondo secondo la quale il risparmio ? un atto buono in s?, di previdenza nei confronti di un incerto futuro, dominato dall'alternarsi di buone e cattive stagioni, di buoni e cattivi raccolti. Keynes vuol spiegare che, se non si pu? risparmiare in forma reale, mettendo da parte sacchi di grano o altre derrate per integrare futuri deficit di produzione agricola, da consumare direttamente, perch? magari tali derrate si deteriorano velocemente, o perch? la societ? si ? specializzata e non tutti producono tutti i beni che consumano, non si pu? risparmiare, cio? consumare di meno, se non esiste qualcuno che allo stesso tempo vuol prendere a prestito. Anche mettere i soldi sotto il materasso vuol dire prestare allo stato, che quella moneta emette.

            La produzione si espande e il reddito cresce solo se il risparmio ? investito, altrimenti esso abortisce, ? inutile dal punto di vista economico. Pu? servire, come vitto dei soldati, alla sopravvivenza della nazione, o come spese per creazione di opere d'arte, per abbellimento dell'ambiente, o per la sua salvaguardia, ma se non esistono imprenditori che investono quel che la gente risparmia, il reddito non pu? crescere.

            Questo ? il concetto base della macroeconomia keynesiana, e non si vede come possa essere esorcizzato da un libro di testo, anche oggi. Eppure gli economisti ortodossi che hanno ripreso il timone della disciplina sono riusciti a farlo, e i libri di testo odierni fanno i salti mortali per fornire una visione del mondo ispirata alla teoria dell'equilibrio economico generale, in cui tutto si tiene e non ci sono variabili gerarchicamente pi? importanti di altre. In tali modelli, lo spazio della politica economica ? ridotto alla eliminazione di distorsioni che impediscono all'equilibrio economico generale di funzionare stabilendo la piena occupazione di tutti i fattori produttivi. Il risparmio non abortisce mai, perch? trova sempre chi lo investe produttivamente.

            Il precetto che il volgo considera keynesiano per eccellenza, il deficit spending, ? il meno interessante e il meno originale dei suggerimenti forniti dall'economista di Cambridge nel suo libro pi? famoso. Pi? cogente, per il tempo presente, ? certamente l'opinione secondo la quale non sempre il mercato finanziario funziona per massimizzare reddito e occupazione. Dall'analisi keynesiana si evince il precetto che di troppa finanza una economia capitalista pu? anche morire, e che la finanziarizzazione dell'economia ha coinciso pi? spesso con le fasi di declino che con quelle di ascesa, nella storia economica dei vari paesi.

            Questo concentrare l'attenzione sulla patologia finanziaria, da parte del Keynes della Teoria generale, fornisce a chi legge un altro suggerimento molto attuale: quello secondo cui i lavoratori sono non i protagonisti della storia economica dei paesi sviluppati, ma solo coloro che sopportano le conseguenze delle lotte che quotidianamente si conducono, in tali paesi, tra percettori di profitti e percettori di rendite, specie finanziarie. La distinzione tra profitti, salari e rendite ? forse il massimo contributo che la scienza economica inglese ha dato, e l'analisi di Keynes in essa si inscrive, modulando i concetti di rendita nella maniera gi? detta. Keynes non prevede una confusione tra le categorie del profitto e della rendita, ed analiticamente essa non ? possibile. Ma egli sa bene che desiderio ultimo di ogni percettore di profitti ? trasformarsi in un rentier, cos? come ogni imprenditore ambisce a mantenere quanto pi? a lungo sia possibile una posizione di monopolio, spaziale o tecnologica che sia. Impedirgli di farlo ? compito della politica economica, cos? come lo ?, per Keynes, il prendere partito a favore degli imprenditori puri e contro i percettori di rendite.

            Nei cinquant'anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale il messaggio della Teoria generale e in generale tutta la metodologia analitica keynesiana hanno subito, dopo un primo ventennio di fulgore, la controffensiva della teoria economica tradizionale. Il fiorire del capitalismo fordista nella gran parte dei paesi occidentali, con la prevalenza delle produzioni di beni di consumo durevole in grande scala e in grandi fabbriche ha creato, per la prima volta nella storia, una piccola borghesia di massa fatta di lavoratori delle grandi fabbriche. Costoro, forniti di rispettabili redditi da datori di lavoro che si trovavano ad operare in mercati oligopolistici, hanno potuto esercitare una domanda di prodotti che, insieme alla ripresa degli scambi internazionali, in effetti ha stabilizzato l'occupazione a livelli elevati nei paesi al centro dell'economia mondiale. A queste masse piccolo borghesi ? stata per qualche decennio data qualche modesta possibilit? di governare la propria autobiografia, di risparmiare, di scegliere tra diverse opportunit? di collocare il proprio risparmio.

            Questo non era il contesto nel quale era vissuto Keynes ed ? sembrato per qualche tempo che la sua analisi, nelle nuove condizioni, fosse divenuta obsoleta.

            Nei due decenni pi? recenti, tuttavia, le cose hanno cominciato a mutare radicalmente. Il modello fordista di produzione, che trovava il suo punto di forza nel settore dell'automobile e degli elettrodomestici, ? stato sostituito da forme accentuate di decentramento, la concentrazione della produzione in grandi fabbriche ? diminuita, la concorrenza internazionale nei settori di produzione di beni di consumo durevoli ? cresciuta, riducendo il tradizionale controllo oligopolistico dei produttori occidentali a favore di nuovi produttori, specie asiatici.

            Nel nuovo contesto, la classe piccolo borghese occidentale legata al fordismo ? risospinta verso il basso, verso quella passivit? che contraddistingueva la classe operaia ai tempi di Keynes, accresciuta dal ritorno della disoccupazione e della incertezza.

            Il centro della scena ? di nuovo occupato dai conflitti tra percettori di profitti e rentier, che ha luogo ora senza alcuna attenzione ai confini nazionali. L`ipotesi di tendenza naturale delle economie mature all'equilibrio di piena occupazione diviene dunque di nuovo problematica.

            Da queste trasformazioni nasce l'utilit? di una rilettura di Keynes, non solo del Keynes della Teoria generale, ma anche e forse pi?, del Keynes del Trattato della moneta che di sei anni precede l'opera maggiormente nota. In particolare del volume secondo di tale opera, nel quale l'autore esamina i dilemmi della politica monetaria in regime di libert? di movimento di capitali e di cambi fluttuanti.
              Alla Teoria generale, ancor pi? che alle altre opere keynesiane, tuttavia, il lettore occidentale di oggi non pu? mancare di sentirsi culturalmente affine, immerso come ? anche lui in una atmosfera di fine degli entusiasmi sulle conseguenze necessariamente benefiche della globalizzazione e delle certezze inculcate dalla revanche pluridecennale della teoria economica ortodossa.

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