23/6/2005 ore: 11:19
"CoopRosse" Gli inamovibili governatori
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Consorte è il più famoso. Ma dietro di lui crescono i padri-padroni della «solidarietà». Potenti e autonomi dal partito. Insieme valgono 4o miliardi Erano in 102 mercoledì scorso all’hotel Europa nel centro di Bologna. Tutti i top manager della cooperazione «rossa», nessuno escluso, riuniti in una tavolata da 40 miliardi di euro (a tanto ammonta più o meno il fatturato delle relative aziende). L’occasione per l’insolito pranzo tra tycoon dell’economia solidale non era l’Unipol, di cui comunque si è parlato, ma qualcosa di molto simile alla celebrazione dell’orgoglio cooperativo. Ricorreva il decennale della tangentopoli napoletana, una ferita al cuore del sistema conclusa con l’assoluzione di tutti i protagonisti. Sull’operazione Katana dei Ros, che il 10 giugno ’95 portò in carcere alcuni dei principali dirigenti del movimento con l’accusa di partecipazione in associazione camorristica, la Legacoop ha presentato un libro dal titolo: Katana eroi per forza… di legge . Al di là del folklore, l’insolito consesso dà la misura della coesione tra la classe dirigente delle cooperative. Difficile immaginare una riunione simile tra presidenti di imprese private, a parte l'assemblea annuale di Confindustria. Eppure anche i manager delle grandi cooperative hanno l’autista e ormai si assumono responsabilità e rischi non diversi da quelli dei loro colleghi capitalisti. Anzi. La scalata di Unipol a Bnl è lì a dimostrare che hanno imparato a usare bene anche gli strumenti della grande finanza. I 30 cooperatori che di Unipol sono azionisti vogliono la Bnl tanto quanto l’amministratore delegato Giovanni Consorte , costi quello che costi. «Non per far contento D'Alema», scherzano, ma magari perché le imprese solidali hanno un problemi di sottocapitalizzazione e hanno bisogno di una banca di riferimento per fare il salto di qualità. Ma chi sono questi illustri sconosciuti pronti a spendere miliardi per conquistare la sesta banca nazionale? Non hanno fatto la Bocconi ma la scuola delle Frattocchie (quella che formava i quadri dirigenti del Pci) oppure quella della Legacoop, quando ancora la centrale cooperativa aveva un inquadramento politico. Sono pagati il 30,8% in meno, in media, dei loro pari grado nelle imprese private, ma godono di un potere decisionale e di una longevità di comando senza paragoni. I più noti occupano le loro poltrone da una ventina d’anni (Turiddu Campaini di Unicoop Tirreno addirittura da 30) ma, a differenza dei vecchi boiardi delle partecipazioni statali, non hanno più sopra di loro un’azionista (o un partito) in grado di «silurarli». Anche perché si sono guadagnati sul campo, cioè sul mercato, i galloni del successo professionale. «Il potere è un vantaggio ma anche una debolezza - spiega Claudio Levorato , presidente di Manutencoop da 21 anni -. Nelle cooperative c’è una generazione di manager che ha interpretato il ruolo di gestione tipico dell’imprenditore, di capo incontrastato, guidando le aziende alla sfida del mercato. Ma il padre-padrone è un limite, è l’handicap di una proprietà democratica ma debole dal punto di vista patrimoniale». Levorato, 56 anni, è l’unico tra i big della cooperazione che ha cambiato la governance assembleare per tutelare le minoranze. Ma non è l’unico che, dopo aver fatto la trafila dal vecchio Pci alla Legacoop, ha saputo trasformare un’azienda locale in un leader di mercato tale da interessare investitori privati (in questo caso i Benetton). Un altro degli uomini chiave del nuovo corso è Pierluigi Stefanini , numero uno di Coopadriatica, colosso della cooperazione di consumo e primo socio di Unipol. Stefanini, ex operaio della Gd, società di packaging dei Seragnoli, ex segretario del Pci bolognese negli anni ’80 ed ex dirigente della lega regionale, è presidente di Holmo, la holding che raggruppa le cooperative socie di Unipol. Ma è anche membro del consiglio della fondazione Carisbo e della Camera di Commercio, che rosse non sono. Ha fatto di Coopadriatica un gigante con 819 mila soci e vendite per 1,7 miliardi e ha quotato la controllata Igd. Tra gli altri baroni del settore grande distribuzione, il più ricco del sistema lega, in due avevano già intuito l’importanza delle alleanze bancarie: Bruno Cordazzo , che ha portato Coop Liguria nella Carige, e il toscano Campaini, che ha infilato Unicoop Tirreno in Mps. E un altro pezzo grosso del settore, «mai iscritto al Pci», è il modenese Mario Zucchelli , presidente di Coopestense da 15 anni. Zucchelli è l’artefice dell’espansione in Puglia delle cooperative, partita dall’acquisizione dei supermercati Coin e Pam, e adesso tratta da pari con Bernardo Caprotti (Esselunga). A chi rispondono i padroni degli ipermercati? O Luciano Sita , fondatore di Conad e presidente di Granarolo da 15 anni, unico italiano in grado di comperare Parmalat? O Domenico Olivieri presidente di Sacmi? «Al mercato - risponde Marco Bulgarelli amministratore delegato di Coopfond -. L’epoca della centrale interventista è finita con Lanfranco Turci , adesso c’è la lega leggera». Bulgarelli, 53 anni, ex ricercatore universitario ed ex dirigente della lega nazionale, fedelissimo di Pierluigi Bersani , ha messo in piedi Obiettivo Lavoro insieme con la Compagnia delle Opere e tiene le chiavi della cassaforte della Lega, cioè Coopfond. Il fondo mutualistico che raccoglie il 3% degli utili delle cooperative non è un investitore burocratico ma una vera e propria merchant bank. Ha il 6% di Holmo, un patrimonio di 250 milioni e lo scorso anno ha finanziato 350 operazioni tra start up, acquisizioni e fusioni. Per Bulgarelli sostenere l’espansione di Unipol significa moltiplicare le risorse per tutto il sistema. E la pensano così quasi tutti quelli del pranzo all’Europa: i quarantenni come Marco Pedroni (Coop Nord Est) e Paolo Cattabiani (Acda) e la vecchia guardia. Per esempio Ivan Soncini , un ex sindacalista della Cgil di Luciano Lama ora a capo del Ccpl: ha trasformato il vecchio consorzio degli appalti delle cooperative edili in un gruppo diversificato con 700 milioni di euro di ricavi in Italia e nei Paesi dell’Est. Oppure Massimo Matteucci , presidente storico del colosso delle costruzioni ravennate Cmc: 53 anni, è in Cmc da trenta. Ha seguito la dolorosa ristrutturazione degli anni ’90 ma adesso firma contratti in Cina, Sudan, Algeria e corre per il ponte sullo Stretto di Messina. Roberta Scagliarini
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