giovedì 23 settembre 2004
sezione: NORME E TRIBUTI - pag: 29
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ANALISI Una misura sopravvalutata
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di ONORATO CASTELLINO ed ELSA FORNERO
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Smettiamo di chiamarlo "superbonus". Anche tralasciando il "super", definireste, infatti, "bonus" un trasferimento di denaro dalla vostra tasca destra alla vostra tasca sinistra? Sia pure con una certa approssimazione, di questo sostanzialmente si tratta: gli importi che verranno trasferiti nella busta paga del lavoratore dipendente il quale, avendo maturato i requisiti per la pensione di anzianità, deciderà di rinunciarvi, sono infatti in larga misura importi che sarebbero andati ad alimentare la sua pensione. Per motivare questo giudizio eterodosso, occorre dissipare la scarsa trasparenza di tutti gli elementi che sono coinvolti nell’opzione, e considerare i margini di scelta più significativi per il lavoratore. Si supponga di confrontare la situazione di un lavoratore che abbia già deciso di continuare l’attività e si domandi se farlo usufruendo del bonus oppure secondo la normativa oggi vigente. Semplificando, per ogni anno di permanenza al lavoro, nello status quo si continuano a versare i contributi; in contropartita, la pensione che si godrà aumenta per effetto di un anno di anzianità in più, e quindi, secondo la regola in vigore, in misura pari al 2% della retribuzione. Guardando agli anni di vita attesa residua, applicando un ragionevole fattore di sconto, e deducendo l’imposta sul reddito, si arriva a un valore attuale di questo maggiore flusso futuro che si colloca nell’ordine del 30% della retribuzione annua. Con il superbonus, d’altro canto, i contributi (33% della retribuzione, esenti da imposta) vengono versati al lavoratore, ma la pensione rimane congelata nel suo valore reale. I due valori sono all’incirca equivalenti. Il superbonus non è dunque un regalo, ma semplicemente la compensazione anticipata dell’aumento pensionistico a cui si rinuncia. Il ragionamento potrebbe essere completato, per esempio considerando l’ulteriore aumento di pensione derivante da eventuali scatti di retribuzione nell’ultimo anno (che si riverberano sull’ammontare del trattamento previdenziale), ma ciò non farebbe che rafforzare il vantaggio dello status quo. Pur senza essere pessima (d’altronde la strada era già stata tracciata, senza grande efficacia, dal Governo di Centro-sinistra), l’operazione superbonus presenta più debolezze che vantaggi e trova più giustificazioni nelle tattiche elettorali dei partiti al Governo che non nei fondamenti economici. Un primo aspetto negativo è formale, o di immagine: è paradossale che sia proprio il Governo a dare ai lavoratori l’impressione che uscire dal sistema di previdenza pubblica sia un’operazione economicamente vantaggiosa, il che equivale a dire che rimanerci è un cattivo affare. Il grado di fiducia dei lavoratori nel sistema pensionistico pubblico è già stato scosso da varie riforme (necessarie, ma solitamente presentate male) e da annunci di nuovi riordini. Non c’era bisogno di un nuovo messaggio che, a un’attenta lettura, non può che risultare negativo. Al di là del fattore immagine, che non si tratti di un "regalo" per la grande maggioranza dei lavoratori che posseggono i requisiti per usufruirne trova dimostrazione nei calcoli, sia pure approssimativi, prima illustrati. Di conseguenza, delle due l’una: se le regole precedenti erano tali da indurre il potenziale pensionato di anzianità a rimanere al lavoro, la nuova norma sarà priva di effetti e irrilevante; se le regole precedenti spingevano al pensionamento, la nuova non indurrà a modificare la decisione. Ciò non significa che la norma sia destinata a rimanere lettera morta. Qualche lavoratore — per motivi di liquidità, o semplicemente per incapacità di calcoli lungimiranti — potrebbe essere più sensibile a una somma immediatamente disponibile che a un pressoché equivalente valore attuale di prestazioni future. In qualche altro caso, la conoscenza delle proprie (precarie) condizioni di salute può indurre a prevedere una vita residua più breve dell’aspettativa media, e quindi a una stima più contenuta del valore attuale. In questi e altri possibili casi, non è da escludere un qualche effetto concreto, che peraltro assumerebbe verosimilmente una dimensione limitata. Due rilievi sono, inoltre, opportuni. In primo luogo, quanto più efficace sarà il provvedimento, tanto più la finanza pubblica si troverà a fronteggiare con un disavanzo immediato (la rinuncia ai contributi) la riduzione di uscite future (la minore spesa pensionistica), ciò che si pone all’esatto opposto di molte recenti manovre "una tantum" con le quali si è cercato di migliorare, nel breve termine, i saldi del bilancio. In secondo luogo, le argomentazioni precedenti presuppongono che non si possa continuare a lavorare e al tempo stesso percepire la pensione di anzianità. Ma non si deve dimenticare che la normativa attuale consente di cumulare il reddito di lavoro con la pensione di anzianità, purché chi la richiede abbia il duplice requisito di 37 anni di anzianità e 58 di età. Ne segue che gli eventuali effetti del superbonus sono comunque limitati a chi non raggiunga questi requisiti; chi li possegga, non ha ragione alcuna per rinunciare alla pensione. Sul superbonus, in definitiva, si è fatto molto rumore e si è spesa molta retorica, se non per nulla, certo con motivazioni assai meno valide di quelle solitamente sbandierate. Quanto agli effetti veramente rilevanti della riforma previdenziale, occorrerà aspettare ancora.
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