Sulla previdenza non si può più aspettare
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di RENATO BRUNETTA e GIULIANO CAZZOLA
Giulio Tremonti ha messo le carte in tavola in una intervista a «Il Corriere della Sera» di ieri e Silvio Berlusconi ha confermato l'intesa, anche se "ufficiosa", sulle pensioni. Ne prendiamo atto, nella consapevolezza che le proposte in circolazione non sono affatto una "riformicchia". Ma proprio perché non sono in discussione provvedimenti qualsiasi - pensati solo per "fare cassa" e magari un po' di demagogia - riteniamo doveroso esprimere le seguenti valutazioni.
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L'analisi. Tremonti ha il merito di "bucare" i luoghi comuni che sono a corredo della riforma Dini. Secondo la verità ufficiale che da anni viene raccontata agli italiani, la legge n. 335/1995 ha risolto tutti i problemi. Con l'introduzione del calcolo contributivo il sistema ha innestato una specie di pilota automatico grazie al quale l'equilibrio è assicurato in re ipsa, dal momento che ognuno - ecco il precetto biblico - riceverà quanto avrà donato. Gli andamenti demografici, il rapporto tra attivi e pensioni (fondamentale in un modello che rimane a ripartizione) non sembrano aver più alcun ruolo, come se tra mezzo secolo il problema non fosse più quello di distribuire equamente le risorse tra le generazioni, ma soltanto quello di applicare una formula di "capitalizzazione simulata", la sola in grado di emulare il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Fino ad allora - dicono i pasdaran del conformismo vigente - si dovrà mettere in conto un inerpicarsi della spesa (fino al picco del 16% del Pil nel 2033), prima che tutto torni a una virtuosa normalità. Tremonti, giustamente, fa notare che la "gobba" nei conti pensionistici non è una maledizione del cielo, ma un prodotto dell'uomo e dimostra che il Paese non potrà sopportarla anche perché in quello stesso arco di tempo tutte le politiche sociali esploderanno sotto la spinta dell'invecchiamento della popolazione, con effetti facilmente immaginabili per la tenuta degli interventi tradizionali e, soprattutto, per la (mancata) promozione di nuove azioni. Non è affatto certo, pertanto - qui sbaglia Tremonti - che nel 2050 l'Italia spenderà troppo poco per le pensioni. Sicuramente la riforma Dini promette pensioni da fame per i giovani d'oggi e pensionati di domani: il modello previsionale dell'Inps del 1998 - quello più recente è stato segregato - stimava che a metà secolo il Fondo del lavoratori dipendenti avrebbe erogato 123 pensioni per ogni 100 iscritti e che il rapporto tra pensione media e retribuzione media sarebbe risultato inferiore al 30 per cento. Ma che - a regime - il sistema sia sostenibile è tutto da dimostrare: non solo perché l'Italia manterrà, nel 2050, un rapporto spesa/Pil superiore di circa un punto rispetto alla spesa europea; ma soprattutto perché le stime riguardanti la diminuzione del tasso di sostituzione, col metodo contributivo in vigore, dipendono in larga misura dalla revisione dei cosiddetti coefficienti di trasformazione (i parametri, corretti in senso attuariale, la cui moltiplicazione per il montante maturato determina l'importo della pensione in ragione inversamente proporzionale all'età anagrafica da 57 a 65 anni). Tali coefficienti, calcolati nella legge del 1995 sugli indici di mortalità del 1990, saranno rivisitati nel 2005. È facilmente intuibile che - date le trasformazioni intervenute nel frattempo - le revisioni dovranno essere robuste: sindacati permettendo, però, dal momento che il passaggio del 2005 (al pari di quelli successivi) non è automatico. In conclusione, non è affatto acquisito che, a regime, il sistema sia equo, eroghi trattamenti adeguati, risulti sostenibile e veda scendere marcatamente la curva della spesa, rebus sic stantibus. Le terapie. Nel disegno di Tremonti (che è poi il medesimo della delega) c'è una priorità: imprimere un forte impulso al secondo pilastro attraverso lo smobilizzo del Tfr. Qui sorge un primo problema di consenso, poiché una procedura di silenzio-assenso (come vogliono i sindacati) è assai meno efficace di quell'obbligatorietà che fu annunciata dal Governo. Ma - ecco la prova che tutto si tiene - è necessario il concorso di altre circostanze per assicurare finalmente il decollo dei fondi pensione. La Covip (il dato è stato recepito dal rapporto del Governo alla Ue) ha calcolato che, per ottenere dalla previdenza integrativa un tasso di sostituzione dell'ordine del 16-17% (tale da contemperare la minore copertura attesa da parte della previdenza obbligatoria) occorrerebbe versare, per un trentennio, una contribuzione, nelle forme a capitalizzazione reale, pari al 9,25% della retribuzione (inclusa ovviamente la quota di liquidazione). Se si aggiunge tale aliquota a quella legale (il 32,7% nel lavoro dipendente) si arriva ad un prelievo complessivo - per la pensione pubblica e quella privata - assolutamente proibitivo, che è poi la ragione per cui i fondi pensione non decollano. A tale obiezione Tremonti potrebbe rispondere ricordando che la delega contiene (altro punto sotto il tiro incrociato delle confederazioni sindacali) un progetto di "decontribuzione" fino a 5 punti. Il fatto è che - per sostenere il minor gettito degli enti previdenziali - il Governo si è impegnato a stanziare la corrispondente copertura nelle Finanziarie (la stima ufficiale è di 1.500 milioni di euro cumulati nei prossimi tre anni). Il percorso virtuoso - a nostro avviso - dovrebbe essere un altro: ridurre la spesa pensionistica in misura appropriata a compensare i minori introiti. Solo così si potrebbe porre all'ordine del giorno un altro grande tema di prospettiva che si sposa coerentemente con la riforma Biagi: la fissazione di una sola aliquota per i nuovi occupati a prescindere dalla condizione di dipendenti, autonomi o atipici. Va da sé che per tagliare la spesa il terreno più fecondo è quello delle pensioni di anzianità, un istituto che non ha alcuna giustificazione economica, etica e sociale (e che, nelle sue diverse espressioni, è in discussione ovunque in Europa). Se questa è la situazione, non sembra possibile bloccare tutto fino al 2008 e, quel che è peggio, infilarsi in un meccanismo di incentivazione, iniquo (perché premia chi è stato premiato dal sistema), inefficace e oneroso (per realizzare dei risparmi apprezzabili nelle uscite dovrebbero aderire praticamente tutti i futuri pensionati). Le nuove regole. Per Tremonti, dopo il 2008 si andrà in pensione o di vecchiaia (a 65 anni gli uomini e a 60 le donne) o con 40 anni di versamenti. A parte il fatto che non si comprende come questo criterio si armonizzerà con quanto previsto nel sistema contributivo (la pensione di vecchiaia è flessibile da 57 a 65 anni per tutti), la nuova regola - certamente di carattere strutturale - così come viene formulata risulta eccessivamente severa (è il massimo che tocchi a noi affermarlo). Non è credibile un sistema pensionistico accomodante, buonista, rinunciatario, che pretenda di punto in bianco di adottare, insieme, il massimo della severità sia per quanto riguarda l'età anagrafica, sia il requisito contributivo. Sempre però «a ridosso del 2008», perché prima tutto dovrebbe restare immutato o quasi. I requisiti indicati da Tremonti potrebbero essere assunti, al massimo, come indicatori della migliore performance (al pari dei 60 anni di età e dei 40 anni di versamenti del caso francese). Andrebbe, però, previsto un décalage per coloro che scelgono o sono costretti a pensionarsi prima (valicata sempre una certa soglia minima di età e di contributi versati). Piuttosto che agire sul requisito contributivo chi scrive ritiene preferibile (in linea con le indicazioni dell'Europa) implementare l'età anagrafica, partendo da un livello senz'altro superiore ai (ridicoli) 57 anni, a regime, previsti dalla legge Dini, senza rinunciare, però, ad un tratto di flessibilità che meglio si attaglia alle caratteristiche del mercato del lavoro futuro. Il consenso sociale. È ovvio che si tratta di una buona medicina. Bisogna intendersi però. Quale è il consenso che va ricercato? La società italiana è complessa, al punto che non si può delegarne la rappresentanza ai sindacati del lavoratori, i quali agiscono sotto la spinta di interessi circoscritti ma minoritari. Il Governo ricordi la vicenda dell'articolo 18. L'Italia delle piazze sembrava sull'orlo della guerra civile. Un anno dopo il referendum del 15 giugno si è rivelato uno dei fallimenti politici della storia recente. Il governo Berlusconi deve valutare attentamente. Per inseguire qualche interesse limitato e parziale sta rischiando di gettare alle ortiche la prospettiva della costruzione di un diverso blocco di forze sociali che potrebbe trovare, nelle riforme, la risposta ai propri problemi, finora inascoltati ed elusi.
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