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Professioni, replica a Monti |
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di RENATO BRUNETTA
In questi giorni è in corso, a livello europeo, un dibattito intenso sul sistema di regolazione e sull'applicazione delle regole di concorrenza alle libere professioni. Il Commissario Mario Monti si è già espresso varie volte in Parlamento, sulla stampa e in occasioni pubbliche tra cui a Berlino il 21 marzo. Egli, partendo dall'assunto che i liberi professionisti sono imprenditori, propone di applicare loro le regole di concorrenza che vietano le intese, gli abusi di posizione dominante (articolo 81 e 82 del Trattato Ce) e le riserve (articolo 86) come a qualunque altro operatore economico. Il riferimento è il modello professionale anglosassone organizzato in libere associazioni, piuttosto che quello continentale articolato in ordini professionali, enti di diritto pubblico alla cui gestione partecipano direttamente i professionisti sotto la sorveglianza pubblica. Forte di un recente studio da lui stesso commissionato a un istituto di ricerca viennese, Monti ritiene che il sistema anglosassone sia più consono al mercato interno e alla libera concorrenza.
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Ma questo studio lo ha condotto, a mio avviso, su una strada sbagliata. Infatti il modello anglosassone è solo apparentemente più favorevole al mercato: è vero che lo Stato non disciplina le libere professioni in quanto ha completamente delegato la regolamentazione alle libere associazioni. Tuttavia se l'accesso alle professioni è libero, un professionista non iscritto a un'associazione non lavora. Non viene riconosciuto dal mercato. E le associazioni, enti privati, non sono obbligate ad ammettere i professionisti che lo richiedono, anche se in possesso dei requisiti. L'associazione rimane libera di decidere. Cosicché un professionista italiano può in teoria esercitare liberamente la sua professione nel Regno Unito come gli garantiscono le norme del Trattato Ce, ma se l'associazione non lo ammette - come avviene nella maggior parte dei casi - semplicemente non lavora. Quanto all'altro tema centrale del diritto della concorrenza, la fissazione di prezzi o tariffe comuni, è vero che il modello anglosassone non prevede tariffe obbligatorie fissate dallo Stato previa consultazione della professione interessata, come avviene nel modello continentale. Ma in realtà se un cittadino vuole un servizio di qualità media lo deve pagare molto caro, molto più caro che nei Paesi continentali. Le tariffe a tempo che sono le più utilizzate non lasciano scampo: ogni secondo di contatto con il professionista viene conteggiato nella parcella. Al contrario, un sistema di tariffe obbligatorie, accompagnato da una normativa volta a garantire qualifiche elevate, competenza e integrità morale non solo permette di evitare che i membri della professione offrano servizi inadeguati ma è anche idoneo a tutelare l'indipendenza e l'integrità della professione nell'interesse dei clienti; esso inoltre può generare effetti positivi in quanto il divieto di concorrenza sulle tariffe trasferisce la concorrenza sulla qualità della prestazione. A vantaggio dell'interesse del cliente e della collettività. L'estensione del modello professionale anglosassone - che funziona in uno specifico contesto sociale, economico e culturale dove le istituzioni e non le regole pubbliche sono il perno del sistema, dove l'autoregolamentazione e l'autorganizzazione privata sono riconosciute e rispettate da tutti gli operatori - al resto dell'Europa dove invece il sistema pubblico ha sempre giocato un ruolo determinante nel riconoscere la validità di una professione avrebbe effetti perversi, contrari a quelli voluti. Non si deve dimenticare che nel Continente il titolo di studio ha valore legale, l'accesso alla professione avviene a seguito di un esame di abilitazione, l'esercizio viene subordinato all'iscrizione in albi, almeno per le professioni di interesse pubblico. E il modo in cui le libere professioni si organizzano e vengono esercitate rappresenta un elemento costitutivo della struttura socio-economica dei singoli Paesi. Al punto che le diversità che hanno le loro radici nella cultura, nella storia giuridica, nella sociologia degli Stati membri si debbano rispettare, applicando in modo rigoroso il principio della sussidiarietà. Non a caso la Corte di giustizia ha affermato che in assenza di norme comunitarie specifiche in materia, in linea di principio ciascuno Stato membro è libero di disciplinare l'esercizio della professione nel suo territorio e che, pertanto, le norme applicabili alle libere professioni possono differire considerevolmente da uno Stato membro all'altro. Si potrebbe per questa via arrivare ad aprire in modo indiscriminato i mercati continentali alla colonizzazione da parte delle potenti e strutturate società di servizi britanniche, creando loro un terreno di gioco particolarmente favorevole. Ecco perché non ci si può accorgere della specificità delle libere professioni, le quali, proprio per la loro natura, costituiscono uno dei pilastri del pluralismo e dell'indipendenza all'interno della società e svolgono ruoli di pubblico interesse che necessitano di un'applicazione specifica delle regole di concorrenza. Vedremo ora le profonde ragioni di interesse generale e tutt'altro che corporative di questo Statuto speciale del libero professionista. I mercati dei servizi professionali non possono essere paragonati ai "mercati normali". Essi sono caratterizzati dalla cosiddetta "informazione asimmetrica", dal momento che l'utente raramente è in grado di valutare la qualità dei servizi prestati. I servizi professionali generano anche effetti esterni sotto forma di perdite o benefici per la società nel suo complesso, la domanda di servizi professionali è spesso di natura derivativa - il che significa che il servizio reso (la consulenza di un avvocato, il progetto di un architetto) rappresenta un bene intermedio in una catena produttiva più lunga - e che pertanto la qualità di tali servizi costituisce un apporto determinante per numerosi settori di un'economia nazionale. Ogni professione infatti presta servizi complessi la cui natura varia non soltanto da una professione all'altra (ad esempio architetti e medici) ma anche all'interno di una data professione (ad esempio chirurghi e psichiatri). Professioni apparentemente identiche possono richiedere - in Stati diversi - formazioni diverse e prestare servizi di natura diversa (architetti, notai). Tali differenze sono evidenziate dalla difficoltà di trovare una definizione delle professioni che sia generalmente accettata. Per questo le elevate qualifiche richieste in taluni Paesi europei per l'esercizio delle libere professioni non devono essere considerate ostacoli alla libera concorrenza e alla libera circolazione: esse sono fondate sulla necessità di salvaguardare le qualifiche che contraddistinguono le professioni a beneficio dei cittadini europei, e sulla necessità di instaurare tra i liberi professionisti e i loro clienti un rapporto specifico fondato sulla fiducia. In questo contesto anche la nozione di «impresa nell'ambito del diritto della concorrenza» diventa allora una nozione relativa che deve essere stabilita concretamente, caso per caso, in funzione dell'attività specifica in esame. Ragion per cui, laddove un'entità svolga simultaneamente varie attività di diversa natura, la Commissione deve «dissociare tali attività», valutando soltanto se, in funzione dell'attività in esame, l'entità debba essere classificata o meno come impresa. Inoltre ciascuna attività svolta da una data associazione professionale deve essere esaminata separatamente, di modo che le regole di concorrenza siano applicate all'associazione solo quando essa agisce nell'esclusivo interesse dei suoi membri. Come ha di recente constatato la Corte di giustizia, esiste una forte concorrenza all'interno di ciascuna professione, per cui il concetto di dominanza collettiva non può trovare applicazione. Perciò un ordine professionale non costituisce un'impresa o un gruppo di imprese ai sensi dell'articolo 82 del trattato Ce.
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