Passato il referendum restano i problemi
UMBERTO ROMAGNOLI Più dannoso che inutile, il referendum sull´art. 18 ha avuto l´esito che meritava. Sarebbe tuttavia un errore archiviarlo senza tentare un´analisi degli aspetti meno persuasivi della vicenda. Quello più inquietante attiene alla distorsione subita dall´istituto referendario in quanto tale. E ciò perché si è dimostrato come possa essere piegato all´uso perverso che ne fa uno strumento dell´opposizione politica contro se stessa. Di scoraggiante inconcludenza, poi, è stato il ruolo giocato dalla Cgil. E ciò perché il suo tasso di dissimulazione ha toccato un livello che contraddice l´immagine angelicata di un "sindacato dei diritti", come la confederazione ama autodefinirsi. In realtà, essa ha finito per appoggiare l´iniziativa referendaria sulla base di calcoli di convenienza che privilegiavano il patriottismo d´organizzazione nell´ampia misura in cui ogni diversa decisione avrebbe aperto una crisi di governabilità al suo interno. Infatti, una sua significativa componente aveva sponsorizzato ufficialmente il referendum e la Cgil non voleva né poteva delegittimarla. Come dire che la decisione era condizionata da una incognita che riguardava l´assetto del potere di comando nel maggiore sindacato italiano. A modo suo inconcludente è stato anche il pur doveroso salvataggio della disciplina del licenziamento così com´è. E ciò non solo perché una solida politica del diritto interessata al futuro non si costruisce con i tabù, come le argomentazioni più emotive fanno apparire la tutela contro il licenziamento irrobustita dall´obbligo della reintegra. Ma anche perché cresce il numero dei nipotini di Cipputi che di fatto lavorano alle dipendenze altrui senza alcuna tutela. Per questo, tempo fa ha cominciato a circolare la promessa che il diritto del lavoro avrebbe smesso di occuparsi solo del nonno. Da un pezzo, infatti, è arrivato il momento di prendere sul serio la cittadinanza che, con un gioco di parole solo apparente, mi piace chiamare "industriosa" per distinguerla da quella che il movimento sindacale di tutti i paesi situò al centro delle sue rivendicazioni per abbattere lo Stato monoclasse e un rinomato sociologo inglese definì "industriale", un po´ perché (suppongo) odorava di sudore e petrolio, carbone e vapore di macchine e un po´ perché la fabbrica fordista era uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna. Viceversa, la decretazione attuativa della legge delega n. 30 del 2003 sul mercato del lavoro approvata dal Consiglio dei ministri il 6 giugno non potrà mantenere la promessa di valorizzare la cittadinanza "industriosa" se non nella forma dell´auto-inganno. I discendenti di Cipputi dovranno quindi accontentarsi dei mediocri espedienti escogitati per aiutarli a nascondersi che stanno attraversando da soli un autentico passaggio d´epoca. Diversamente, si stenterebbe a capire come mai - in una Repubblica che, carta costituzionale alla mano, è "fondata sul lavoro" - si possa ammettere l´ingaggio "per prestazioni da rendersi nel fine settimana nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali" da parte di disoccupati che, pur obbligandosi ad eseguirle in caso di chiamata del datore di lavoro, non percepiranno neanche un euro se il telefono non squillerà. Il che, a parte l´involontaria comicità di una situazione che offre più di uno spunto per una gag da commedia all´italiana, è contrario alla più elementare logica giuridica: l´indennità di disponibilità non è il compenso dell´impegno a garantire l´adempimento di un´obbligazione esigibile in qualsiasi momento?
Inoltre, quella che la decretazione delegata prefigura non è nemmeno la Repubblica a cui spetta determinare "i programmi e i controlli opportuni" per indirizzare e coordinare "a fini sociali" l´attività economica. Tutt´al contrario, è la Repubblica che liberalizza i processi di esternalizzazione, chiudendo più di un occhio di fronte ad operazioni di maquillage aziendale dirette a disintegrare il tessuto produttivo allo scopo di abbassare il costo del lavoro. Infine, una Repubblica che "tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" vedrà svilupparsi una strategia di politica del diritto attenta a produrre più scoop mediatici che reali progressi. Paradigmatico è il caso dei collaboratori coordinati e continuativi. Li chiameranno lavoratori "a progetto". Ma la regolazione del relativo rapporto, a metà strada tra subordinazione e autonomia, resterà uguale a prima. Nella migliore delle ipotesi. Una formula di stile oracolare, infatti, dilata a dismisura la rinunziabilità da parte dei parasubordinati ai (pochi) diritti che la legge, senza innovare, riconosce. Una formula bilanciata soltanto in apparenza dalla previsione legale della convertibilità in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati da contratti privi della "individuazione di uno specifico progetto, programma o fase di esso". Infatti, una disposizione del genere non può essere enfatizzata. Per un verso, è capziosa e, per l´altro, superflua. È capziosa perché l´obbligatoria predeterminazione consensuale dell´oggetto della prestazione servirà il più delle volte a spingere le parti a sfoggiare la verbosa estrosità necessaria e sufficiente a mettere il contratto al passo con le regole formali; punto e basta. Al tempo stesso, la disposizione è superflua perché anche adesso la qualificazione giudiziaria del contratto prevale sul nomen iuris indicato dalle parti in caso di controversia: il problema è che il falso co.co.co. come non ha oggi la possibilità materiale di sollevarla, così non l´avrà domani. Per ovvi motivi. Si dirà che d´ora in poi le parti potranno disporre di una inedita procedura di certificazione preventiva. È vero. Non può dirsi però né quando né con quanta utilità potranno disporne.
Si potrebbe continuare a rilevare incongruità e piccole o grandi mostruosità dello schema di decreto legislativo fino a stancare anche il lettore più paziente. Ma mi chiedo se ne valga la pena. Qui ed ora, interessa piuttosto chiarire che il documento governativo si propone di capovolgere il rapporto che normalmente intercorre tra un cane e la sua coda. Il provvedimento vorrebbe che fosse la coda, ossia la destrutturazione del diritto del lavoro del '900, a muovere tutto il resto. Il paradosso si commenta da sé. Infatti, restano da disegnare le coordinate all´interno delle quali dovrà avviarsi, con la minore drammaticità possibile, la trasformazione del welfare modellato sul prototipo del lavoro di matrice operaia e industriale in un welfare tendente a coincidere con lo status di cittadinanza indipendentemente dallo svolgimento del lavoro-standard che costituisce il lascito culturale più interiorizzato della prima modernità. Il punto è che la variabile tipologia contrattuale dello scambio tra lavoro e retribuzione deve poter essere ininfluente sulla consistenza del pacco di beni e servizi in cui si materializzano i diritti sociali: sanità, istruzione, sicurezza, pensione. Ma questo non è il punto di arrivo. È il punto di partenza. Sarebbe perciò di sicuro interesse che in proposito si realizzasse una impegnativa convergenza di consensi nell´ambito della consultazione sul merito del provvedimento che il governo è tenuto ad aprire, e sta già svolgendo, con le associazioni sindacali "comparativamente più rappresentative" dei datori e prestatori di lavoro. Oltretutto, potrebbe uscirne rafforzata la volontà - che non è sparita per sempre: si è soltanto inabissata come un fiume carsico - di ritrovare le ragioni della perduta unità d´azione sindacale che ha segnato le stagioni migliori del diritto del lavoro. Certo, i presagi non sono favorevoli. Ma la speranza, come dicevano gli antichi, è l´ultima dea.
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