"Commenti&Analisi" La riforma contrattuale misura i rapporti di forza (R.Realfonzo)
 giovedì 11 novembre 2004
sezione: ITALIA-LAVORO- pag: 21
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INTERVENTO La riforma contrattuale misura i rapporti di forza DI RICCARDO REALFONZO *
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* Ordinario all'Università del Sannio, dipartimento di analisi dei Sistemi economici e sociali |
La disputa sulla revisione del modello contrattuale varato nel luglio 1993 prosegue serrata, soprattutto sullo snodo decisivo: il grado di centralizzazione della contrattazione. Come è noto, nel modello vigente vi è una contrattazione centralizzata, nella quale viene pattuito l'adeguamento dei salari all'inflazione, e vi è una contrattazione decentrata, nella quale si definiscono aumenti salariali connessi agli incrementi di produttività.
Ebbene, sul tema si fronteggiano i fautori del rafforzamento della centralizzazione contrattuale e coloro che propongono di dare più rilievo alla dimensione territoriale e aziendale della contrattazione. Non di rado i duellanti scomodano questa o quella teoria economica; ma non di questione teorica si tratta, bensì di pura e semplice questione politica, attinente al rapporto di forza tra le parti sociali.
Qualche accenno alle alterne vicende della disputa chiarisce il punto. È opportuno ricordare che nel corso degli anni sessanta vigeva un sistema di contratti collettivi nazionali con alcuni meccanismi di rinvio alla contrattazione aziendale per ciò che riguardava l'inquadramento professionale e i premi di produzione.
Allorché si scatenò la contestazione furono proprio le rappresentanze sindacali a spingere per un superamento dei vincoli del contratto nazionale e a favore della libera contrattazione aziendale. A quel tempo, il decentramento fu insomma una conquista del sindacato, mentre le organizzazioni imprenditoriali subirono un sistema che a loro sembrò impazzito, con spinte rivendicative scoordinate che nascevano come funghi in giro per il paese.
Dieci anni dopo le cose cambiarono. Indebolitosi il sindacato a seguito delle crisi e delle conseguenti ristrutturazioni, le organizzazioni imprenditoriali riuscirono a imporre una serie di vincoli alla contrattazione aziendale e a spostare l'asse della contrattazione al livello centrale (cominciando con l'accordo del gennaio 1983). Anche allora le spiegazioni teoriche si sprecavano basta rileggere i contributi di Tarantelli per averne un'idea e laletteratura spiegava, con il ricorso al celebre grafico della "curva a campana" di Calmfors e Driffil, che un forte grado di centralizzazione contrattuale avrebbe prodotto le migliori performance in termini di produzione, occupazione e stabilità dei prezzi.
Poi le cose cambiarono ancora. Venne l'accordo del '93 e da allora i ruoli si invertono: nel sindacato si moltiplicano le spinte per un rafforzamento del contratto nazionale mentre le organizzazioni datoriali abbracciano la causa del decentramento. Anche qui le spiegazioni teoriche e i rinvii alle "esigenze di compatibilità economica" abbondano. Messa in soffitta la "curva a campana", ora si sostiene, tra l'altro, che un sistema contrattuale è tanto più efficiente quanto più la dinamica dei salari riflette l'andamento aziendale della produttività. In particolare, viene osservato che un maggior decentramento contrattuale consentirebbe ai lavoratori delle imprese più produttive di spuntare i meritati incrementi salariali senza che ciò soffochi le imprese meno produttive, che invece hanno bisogno di moderazione salariale per potere oggi sopravvivere e domani crescere.
Ancora una volta, queste spiegazioni teoriche appaiono estremamente discutibili, essendo costituite da "spezzoni di analisi" del tutto diversi tra loro, connessi ad hoc per fini prettamente politici.
"Spezzoni" che tra l'altro risultano molto facili da smontare a una semplice osservazione dei fatti. È ormai chiaro, infatti, che il decentramento non assicura che la redistribuzione della produttività nelle imprese avanzate avvenga davvero, anzi. In Italia la contrattazione di secondo livello riguarda un numero assai limitato di imprese (circa il 10% secondo i dati dell'Eurostat) mentre le esperienze straniere (si pensi al caso dell'Inghilterra del dopo-Thatcher) mostrano che al decentramento spesso seguono effetti di "contagio" della debolezza contrattuale del sindacato dalle aree deboli alle aree forti del Paese.
La verità, dunque, è un'altra. Le organizzazioni datoriali propendono oggi per una riduzione del grado di centralizzazione della contrattazione per la stessa ragione per cui trentacinque anni fa il sindacato fece altrettanto. Il punto è che quanto minore è il grado di centralizzazione contrattuale, tanto più si consolida il primato della parte sociale che si trova in posizione di relativa forza politica. Insomma: il decentramento contrattuale rinsalda la parte sociale forte e indebolisce quella debole.
Svelata la sostanza politica della disputa la questione diviene allora un'altra. Ha senso, oggi, che le parti sociali si gettino in una zuffa sulla revisione del modello contrattuale? E soprattutto: se è vero che il decentramento apre le porte a una nuova stagione di moderazione salariale, è questo un risultato auspicabile? Il Patto del luglio 1993 ha assicurato una relativa stabilità dei prezzi ma ha anche indebolito la domanda interna e indotto le imprese a muoversi nella direzione (errata) della competitività da costi e non già verso la strada (più lungimirante) degli investimenti e delle innovazioni.
Portare il Paese a un conflitto per il decentramento contrattuale significherebbe non solo ignorare quanto sia stata ampia la redistribuzione a svantaggio dei redditi da lavoro, ma soprattutto quanto sia profonda la crisi di competitività del nostro apparato produttivo e quali ne siano le cause.
La parte produttiva e sana del Paese non ha bisogno di depauperare il proprio capitale umano ma necessita di politiche per il superamento dei limiti tecnologici e infrastrutturali, investimenti pubblici in formazione, ricerca e sviluppo, politiche industriali coordinate.
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