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La decontribuzione è tutta da valutare |
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DI ELSA FORNERO E PIER MARCO FERRARESI* *Cerp Il disegno di legge in materia previdenziale, in fase di approvazione al Senato, delega il Governo a emanare norme intese, tra l'altro, a sostenere lo sviluppo, sinora complessivamente deludente, della previdenza integrativa. A tale proposito, il provvedimento precisa che il Governo dovrà adottare misure «finalizzate a incrementare l'entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari con contestuale incentivazione di nuova occupazione con carattere di stabilità». Il dibattito recente si è focalizzato sul punto della norma che prevede «la riduzione fino a 5 punti percentuali degli oneri contributivi dovuti dal datore di lavoro, senza effetti negativi sulla determinazione dell'importo pensionistico del lavoratore, per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato delle categorie di lavoratori che saranno definite in sede di attuazione della delega». Anche se la riduzione degli oneri contributivi è finalizzata alla creazione di nuova occupazione, è opportuno domandarsi se lo strumento impiegato sia corretto oltre che adeguato allo scopo. Mentre l'adeguatezza va valutata rispetto all'efficacia del provvedimento e non vi è ragione, in prima approssimazione, per dubitare che una riduzione del costo del lavoro ne incentivi la domanda, la correttezza riguarda sia gli effetti destabilizzanti che tale misura potrebbe avere sugli equilibri del sistema previdenziale (con la "rottura" della corrispondenza tra contributi e prestazioni e la creazione di disavanzi permanenti nel sistema), sia gli effetti sulle potenzialità di sviluppo della previdenza complementare. Per quanto riguarda il primo aspetto, la riforma comporterebbe, permanentemente, a regime, un maggiore deficit annuo pari a circa 0,8 punti percentuali di Pil. L'entità del disavanzo non è forse tale da "dissestare" il sistema, ma non è neppure trascurabile. Né sembra accettabile l'obiezione secondo cui, per una volta, sarebbero beneficiate le giovani generazioni, quelle che sono state penalizzate dalle riforme degli anni 90, giacché il riequilibrio dovrebbe in ogni caso avvenire togliendo "il troppo" dato ad alcuni piuttosto che elargendo nuovi "regali" alle categorie che ne sono state finora escluse. In parallelo con la riduzione del costo del lavoro, infatti, la decontribuzione a parità di pensione produrrebbe, per coloro che ne beneficiano, un incremento del tasso interno di rendimento della previdenza, grazie all'allargamento del differenziale tra l'aliquota di computo e quella di finanziamento. La decontribuzione costituisce pertanto una misura assai diversa rispetto a proposte di opting out, le quali implicano invece una riduzione dell'aliquota accompagnata da una riduzione dei benefici e dal vincolo di destinazione a fondo pensione dell'importo così risparmiato. Relativamente all'opting out, la misura proposta nella delega ha costi permanenti, e non solo di transizione; non riduce le dimensioni della previdenza pubblica, ma ne ripartisce solo diversamente gli oneri: sotto questo profilo, essa non aiuta lo sviluppo della previdenza integrativa, ma anzi lo contrasta. Non soltanto, infatti, non attribuisce, nemmeno parzialmente, al lavoratore la discrezionalità di versare i contributi in meno a un fondo integrativo, ma alza il rendimento del sistema pubblico, riducendo in parallelo la convenienza relativa della capitalizzazione privata. A ben vedere, dunque, la decontribuzione si limita a trasferire da contributi a imposte (o a debito?) il finanziamento di una quota della pensione. Sotto questo profilo, è facile vedere l'analogia con politiche del passato nelle quali il sistema previdenziale veniva "usato" di volta in volta per alleviare i costi di ristrutturazioni industriali, per "aiutare la famiglia" o per altri buoni obiettivi, che avrebbero però richiesto strumenti ad hoc. In questa prospettiva, e al di là degli oneri e dei vantaggi che se ne possono attendere, la decontribuzione a parità di benefici, rappresenta un indubbio passo indietro rispetto alla logica che aveva animato l'introduzione del metodo contributivo. Tale metodo persegue il duplice e difficile binario di uno stretto legame, a livello individuale, tra contributi e prestazioni e della sostenibilità macroeconomica del finanziamento a ripartizione. Per quanto buoni possano apparire gli obiettivi con i quali se ne giustifica la rottura, il danno a lungo termine può essere tutt'altro che trascurabile.
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