15/7/2002 ore: 12:20

"Commenti" Abbassare i toni con gli altri e dentro se stessi - di Adriano Sofri

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LUNEDÌ, 15 LUGLIO 2002
 
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LE IDEE
 
Abbassare i toni con gli altri e dentro se stessi
 
 
 
 
ADRIANO SOFRI

ALL´INIZIO, parecchi anni fa, c´era una discussione sulla flessibilità, e al suo interno sull´art.18. Secondo alcuni esperti, la norma che sanziona – solo in Italia, si diceva - il licenziamento senza giusta causa con il ricorso al magistrato e la reintegrazione nel posto di lavoro, inceppa l´iniziativa economica e la stessa occupazione. Dunque, ferma restando la giusta causa, la norma sul reintegro andava soppressa, e piuttosto andava aumentato il risarcimento al lavoratore licenziato. Le componenti più intransigenti dei sindacati, decisamente contrarie alla modifica dell´art.18, le opponevano argomenti di fatto piuttosto che di principio. In sostanza, ritenevano che la perdita di garanzie per i lavoratori occupati non avrebbe affatto favorito la nuova occupazione. Via via che la discussione si inaspriva, si caricava di presupposti (pregiudizi, se volete) ideali (ideologici, se volete). I liberisti, insofferenti dei vincoli alla libertà di mercato, addebitavano ai sindacati, come nel caso delle pensioni di anzianità, una difesa corporativa degli interessi dei già occupati contro gli inoccupati e soprattutto i giovani, e rinfacciavano polemicamente ai sindacati di aver escluso per legge dai rapporti coi propri dipendenti il vigore dell´art.18.
Fra i più fervidi avversari dell´art.18 i radicali, persuasi della bontà del liberismo (e di un legame stretto fra liberismo, liberalismo e libertarismo), ne fecero l´oggetto di un referendum sconfitto. Che poneva un problema di merito, un altro di metodo. Ogni controversia ha due facce: quella del suo merito, e quella del modo in cui viene sentita dagli interessati. La maggioranza dei lavoratori condivideva la sensazione che la manomissione dell´art.18 mirasse a indebolire la compattezza e la fiducia politica del lavoro dipendente. Questo doppio registro si è sempre più divaricato, mettendo ai margini tutti coloro che, da qualunque provenienza politica, invocassero un trattamento "tecnico" e proporzionato della questione: Ichino o Treu o Boeri, il Marco Biagi del governo di centrosinistra e il Marco Biagi del governo di centrodestra. La Cgil –la Fiom in testa - aveva ormai fatto dell´art.18 una trincea di principio, replicando alla vistosa tentazione della Confindustria e di una parte del governo di arrivare a un braccio di ferro che lasciasse il sindacato battuto sul campo: una specie di ripetizione generale della Fiat 1981.
Man mano che il rubabandiera sull´art.18 si irrigidiva, si moltiplicavano anche le voci fuori concorso – e fuori corso - che spiegavano come si trattasse di una questione tutt´altro che decisiva, riguardante qualche decina di persone all´anno, accantonabile senza pregiudizio di nessuno. Era anche la posizione di Marco Biagi, mi pare. Il governo oscillò (e oscilla ancora) fra oltranzismo e prudenza. La Lega di Bossi e Maroni dichiarò di non volersi far trascinare in una battaglia simbolica malvista dagli operai, e poi tornò a farsene tentare. La stessa cosa avvenne a Fini. Prevalse una posizione dimezzata, che ridimensionava vistosamente la portata pratica della questione, ma ne lasciava sussistere la sfida simbolica al movimento operaio. Che ha pagato carissima, quando la Cgil ha portato a Roma in nome dell´attaccamento orgoglioso a un diritto una moltitudine di persone, padri e madri e figli e figlie.
Il successo dello sciopero generale, la promozione orbitale di Cofferati, il riallineamento riottoso di Cisl e Uil alla Cgil, sarebbero stati risparmiati al governo da un semplice accantonamento dell´art.18. Ma qui, prima delle ulteriori tappe di una partita segnata da una sequela di autogol, bisogna fermarsi a prendere in conto la questione del terrorismo.
Continuo a non spiegarmi nei modi correnti il terrorismo che ha assassinato D´Antona e Biagi. Lasciatemi citare quel che ne scrissi allora. "Per ammazzare qualcuno bisogna odiarlo: uomini come loro erano fra i meno odiabili di questo mondo. Bisogna ridurli a simboli, detestarne lo spirito riformatore: difficile da ottenere con persone così perbene, di facce e modi gentili, riservati e più affezionati alle proprie competenze che alla propria figura pubblica. Occorre immaginare assassini attempati, malati di rancore, di terza fila scolastica o accademica o sindacale. Capaci di un´invidia e un odio ripugnante. L´assassinio spicciolo consente loro una colossale occasione di devastazione civile. Perché questo avvenga non importa che il governo sia di centrosinistra o di centrodestra: importa che il contesto sia febbrile. Non sono ladri da giorni ordinari, sono sciacalli da terremoto. D´Antona fu ammazzato al tempo del Kosovo. Biagi al tempo dello sciopero generale, e di una situazione politica paradossale, in cui una nuova maggioranza politica esposta a un´evoluzione incerta e rischiosa non è un 'regime´, ma viene sentita e osteggiata come un 'regime´ da una parte ingente e fervida della opposizione civile sociale e politica, la quale così sentendo e agendo rischia a sua volta di favorirne uno sbocco di 'regime´. Vorrei dire che cosa significa 'abbassare i toni´. Ammesso che significhi qualcosa. Significa soltanto ricordarsi ogni volta che si parla con qualcuno o di qualcuno, chiunque sia, il più inviso e disprezzato dei propri avversari, che può essere ammazzato da una banda di assassini. Che le parole pronunciate contro qualcuno, anche le più dure, le più sferzanti, le più insultanti, non saranno responsabili dell´eventuale assassinio di quella persona. Ma che, dopo, se ne proverà un dolore e una vergogna irreparabili. Se si riuscisse a ricordarsi questo, si 'abbasserebbero i toni´. Infatti, benché niente permetta di immaginare riprese di un terrorismo 'antagonista´ capace di confiscare la normalità della vita politica, l´assassinio di Marco Biagi avverte che la partita non si gioca all´aperto fra maggioranza politica e sociale e opposizione politica e sociale. Magari. Fu la scoperta triste di piazza Fontana, per la generazione di allora. Aggiungerò che nell´Italia di oggi il terrorismo politico è un miserabile avamposto del possibile terrorismo internazionale, e del probabile terrorismo mafioso. Il quale, a differenza del primo, saprebbe che cosa volere, e come negoziarlo".
Sono stato costernato dalla lettura dei messaggi di Marco Biagi, e ne ho benedetto la pubblicazione su questo giornale. (Che non ho alcun bisogno di cattivarmi). Non ho capito, dal primo giorno, i risentimenti "di sinistra". Si sarebbe preferito che a pubblicare le lettere fosse un giornale di destra? Né capisco le allusioni che continuano a fiorire: una volta accertato che quelle lettere sono autentiche – e che lo sono nella versione che Repubblica ha ricostituito - quale altra cospirazione si immagina di inseguire? Quelle lettere evocavano in modo dolorosamente netto il nome di Cofferati, e la questione universale dell´"abbassamento dei toni". Sergio Cofferati ci avrà pensato, e la stessa frase pronunciata da Berlusconi alla Camera era fuori luogo, non fuori tema. E ci pensi chiunque alzi i toni nei confronti di Cofferati, o del prossimo nella fila di birilli. Al tempo stesso, le citazioni nei messaggi di Biagi mostrano che egli avrebbe ritenuto inconcepibile il sospetto di una responsabilità di Cofferati in qualunque violenza, esattamente come ciascuno di noi. Il punto è un altro: che Marco Biagi era persuaso di poter essere assassinato, e che una simile minaccia fosse incombente, e se ne figurava perfino le circostanze, e che a pensare una cosa del genere era pressoché solo e deriso, con l´eccezione dei suoi assassini. A tal punto che perfino dopo il suo assassinio un buon padre di famiglia come il ministro Scajola si è lasciato travolgere da un´invettiva di quella fatta. Un rancore invincibile, contro uno così pazzo da temere d´essere ammazzato, per sovrappiù ammazzato davvero.
La voce fuggita dal sen di Scajola faceva intendere che quella fosse opinione corrente su Biagi. Era già successo, penosamente: con Giovanni Falcone, dopo l´attentato dell´Addaura. Se lo era fatto lui. Lo dissero in tanti, e non lo dissero più solo dopo Capaci. Con Biagi dunque hanno continuato, anche dopo. È difficile trarre le lezioni dei fatti.
Gli inquirenti non avevano avuto il tempo di leggere le lettere di Biagi. Commentandole, le hanno ritenute più o meno interessanti a proposito delle mancate scorte. Questione scandalosa, ma non principale. Che Biagi avvertisse così imminente e schiacciante una minaccia da tutti ignorata o sottovalutata, tranne che dai suoi assassini, a me pare una traccia sui suoi assassini.
Torniamo all´art.18, al momento in cui una decisione arrivò all´ordine del giorno del governo. Il governo avrebbe potuto metterlo da parte, ma si sarebbe esposto alle proteste della Confindustria: conseguenza seccante, non micidiale, direi. Ma anche la Cgil aveva un fianco scoperto, il sinistro, naturalmente. Il quale si era appena irrobustito, per effetto di una sequela di circostanze – Genova, la frustrazione della sinistra postcomunista, la rianimazione di lotte operaie, l´obiezione morale al governo di centrodestra, e la stessa sollecitazione confederale alla mobilitazione sull´art.18... Se la Cgil, e Cofferati personalmente, avesse accettato ora di trattare su una piattaforma che comprendesse un qualunque ritocco all´art.18, dopo averne proclamato l´intangibilità assoluta, e averne rivendicato nient´altro che l´accantonamento, avrebbe perduto l´investitura, appena conquistata, di unificatore dell´intera opposizione di sinistra, e si sarebbe visto scavalcato da concorrenti sindacali, più o meno "di base", e anche politici. (È opinione consolidata, mi pare, che il referendum per l´estensione dell´art.18 alle imprese con meno di 15 dipendenti, caldeggiato da Rifondazione, sia uno sgambetto a Cofferati). Poco male, direte: i leader politici devono fare delle scelte eccetera. Tuttavia, l´ho ricordato, le scelte hanno due facce: una nel merito, l´altra nel desiderio di portarsi dietro – e andar dietro - alle persone cui si tiene. Un capo politico è dominus ma anche ostaggio dei suoi seguaci. Di più: c´è la questione del terrorismo. Il terrorismo, soprattutto questa sua miserabile parodia a intermittenza assassina che odia i consulenti del lavoro e riempie dei suoi proclami le caselle postali dei sindacalisti di tutta Italia, si nutre dello sputtanamento dei capi sindacali e politici, ieri con il rinnegato D´Alema divenuto servo della Nato, domani con Cofferati, quando Cofferati firmasse, non più da esperto sindacalista, ma da leader popolare dell´opposizione sociale, qualunque cosa. Ogni firma è, a questo punto, un tradimento.
Ho calcato la mano perché la cosa risultasse chiara. Non dico che basti a dar ragione a Cofferati, ma gli dà delle ragioni, e soprattutto dà torto al governo, e alla temerarietà con cui ha sollevato l´accusa di favorire ("oggettivamente": ormai i linguaggi passano i confini) tentazioni violente e terroriste attraverso l´esasperazione dello scontro sociale. Stralciare l´art.18, come proponevano anche molti industriali interessati a lavorare più che alle sfide politiche, sarebbe costato al governo il malcontento di D´Amato e dei suoi. Accettare l´eccezione all´art.18 –fosse anche davvero sperimentale e reversibile, non offrisse alle elusioni padronali i sotterfugi che Scalfari ha qui illustrato, non appartenesse a un´intenzione di fare del sindacato la cinghia di trasmissione del governo - sarebbe costato a Cofferati un alto prezzo politico, e questi possono essere affari suoi, e avrebbe offerto al parassitismo terroristico parasindacale una vigorosa innaffiatura, e questi sono affari di tutti, governo compreso. Che un tale contesto non sia stato evocato, e forse neanche considerato dai rispettivi attori, non basta a dichiararlo insussistente.
Adesso il rischio più imminente e grottesco per la sinistra sembra esser ridiventato quello della Scissione di Livorno senza Mosca: fantastico. Avendo io uno spirito unitario, di quelli suggeriti dai naufragi (in alternativa al cannibalismo), e trovando che la politica ha questo vantaggio rispetto al calcio, di poter mettere in campo anche più di undici persone, e anche più di uno o due attaccanti, mi permetterò di ricordare –non a Cofferati, che ne è maestro, ma al loggione - la conclusione dell´invito a cena del don Giovanni. Dunque, il Commendatore finalmente accetta, e si trascina all´inferno il temerario amatore, che almeno rifiuta di pentirsi. Ma, racconta il libro capitale di Macchia, l´ultima parola, nel testo di Molière, spetta a Leporello, che vede il suo padrone avvolto dalle fiamme, e geme per il suo bene perduto: "Ah, mes gages! Il mio salario!"

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