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sabato 15 ottobre 2005
Pagina 6
IN ITALIA
«Ma qui la direttiva è già arrivata»
Sara Farolfi
Inavvicinabili perchè ricattabilissimi. Sono croati, rumeni, serbi, bosniaci, macedoni e polacchi, impiegati nei cantieri navali della costa nostrana, e in gran numero anche in quelli edili. Per loro però non vige il diritto del lavoro italiano, bensì quello del «paese di origine». Non è la Bolkestein, ma uno dei suoi genitori. Loro si chiamano «lavoratori in distacco» e, pur lavorando in Italia, non hanno diritto a un bel niente.
Sei anni fa, cantiere navale di Marghera (Fincantieri). A vertenza contrattuale in corso, con blocchi e picchetti di giornate lavorative intere, i sindacati entrano nell'area degli stabilimenti. Un gruppo di lavoratori rumeni, più o meno una quindicina, raccontano la loro storia. Lavorano per una ditta (rumena) che, a sua volta, opera in subappalto per Fincantieri. Prendono circa 400 mila lire al mese. Mica poco, se confrontato con la paga media mensile rumena (80 mila lire). Dalla Romania avevano accettato per questo motivo. Ma poi, una volta in Italia, capiscono l'imbroglio. E allora accettano di lavorare dentro la fabbrica fino a trecento ore al mese, dodici ore al giorno. Ma anche lo straordinario viene pagato con un importo forfettario.
La storia di quei rumeni è durata quasi un anno, fino a quando il sindacato non è entrato. Si è aperta una vertenza, il cui risultato è stato quello di allontanare la ditta rumena e consentire il passaggio dei lavoratori diretti alla ditta italiana.
E' il «lavoro a distacco» come si diceva, «il terreno già compromesso di dumping sociale su cui la direttiva Bolkestein rischia di innestarsi». Una normativa che dà alle imprese italiane la possibilità di offrire appalti a imprese straniere. E queste hanno i propri dipendenti (o spesso se li trovano con il caporalato più spinto) che, pur lavorando in Italia, rispondono alla normativa contrattuale del paese di origine.
Lo racconta Giorgio Molin, della Fiom di Venezia. Di storie come questi i cantieri navali di tutta la nostra costa sono piene. «E si tratta di un fenomeno in crescita». Lì dove il 75% del lavoro viene esternalizzato e appaltato. Il meccanismo è semplice. Per un'azienda italiana basta rivolgersi alla direzione provinciale del lavoro (che dipende dal ministero). Si chiede di utilizzare un'impresa non comunitaria per un determinato periodo di tempo. Certo ci sono dei «requisiti» obbligatori. Ma la normativa contrattuale non è tra questi.
Cosa fa il sindacato in casi come questi? Apre vertenze - spiega Molin - ma anche in caso di buon esito, un differenziale di costo rimane». Perchè i contributi previdenziali e assicurativi vengono versati nel paese di origine. Con imponibili, naturalmente, molto più bassi.
E' quello che succede anche nell'edilizia e nell'agricoltura. E le storie (che non si possono raccontare perchè ci sono cause in corso) sono simili. «Spesso - come spiega Alessandro Genovesi, della Cgil - sono un escamotage per scavalcare la Bossi-Fini». Un imprenditore italiano e un «compare» rumeno, ad esempio. Il lavoratore extra comunitario si fa assumere dal «compare» (che in Romania, per creare una società ha bisogno di un capitale sociale ridicolo), così da risultare ufficialmente «un lavoratore in distacco». Cosa che poi al consolato gli da diritto, per il periodo di lavoro, ad un documento di identità. E il salario? In questo caso, è equiparato al minimo contrattuale italiano, ma sono esclusi la contrattazione di secondo livello e i premi di produttività. I contributi invece, previdenziali e assicurativi, quelli sono versati nel paese di origine (in Romania, ad esempio, si versano ad aliquote fisse in base ai redditi: si parla cioè, tanto per capirsi, di una cifra che va da 80 a 130 euro al mese). Chi controlla? Nessuno.
Secondo le stime della Fillea e della Flai si parla di circa trenta-quarantamila lavoratori, esplosi poi in questo ultimo triennio. O forse di molti di più, in settori come quello edile che hanno un sommerso del 40%. Difficile controllare: i «distacchi» riproducono la frammentazione delle catene di appalti e la sindacalizzazione è pressochè inesistente.
Lo sa bene Antonio Paolinielli, delegato Fiom alla Crn (gruppo Ferretti), un cantiere navale privato di Ancona. «Qui succede di tutto, e noi non riusciamo a controllare perchè i lavoratori, vittime del caporalato, hanno paura». Il salario qui si chiama «paga globale». La storia è, ancora una volta, simile: la normativa contrattuale prevede una paga «globale», calcolata su quella media dei cantieri oltre Adriatico, e comprensiva di tutto. Malattia, ferie, tredicesima, quattordicesima e straordinari, vitto e alloggio inclusi. Un milione e mezzo di lire, quando ancora c'erano, per quel lavoratore ha «osato» raccontare la sua storia.
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