3/4/2007 ore: 11:01
"Analisi" E se il tesoretto non ci fosse? (F.Kostoris)
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Pagina 3 prima di averlo in cassa Nel rispondere alla seconda domanda - cosa fare del tesoretto - conviene premettere un paio di caveat sulla solidità della sua natura. Innanzitutto, così brillanti prospettive per il 2007 in termini di avanzo primario e di deficit/Pil incorporano, per il modo stesso in cui sono costruiti i quadri tendenziali (e dunque anche quelli programmatici, comprensivi degli effetti della manovra correttiva del dicembre 2006), i risparmi pubblici attesi a legislazione vigente. Nella fattispecie, di conseguenza, tali prospettive internalizzano il ribasso dei coefficienti pensionistici di trasformazione richiesto dalla riforma Dini a partire dal 2005 (e anche, dal 2008, l’innalzamento a 60 anni dell’età di ritiro per anzianità, indotto dallo scalone Maroni): eppure è lecito dubitare che queste norme divengano effettivamente operative. Secondariamente, per definizione, il tesoretto nasce dalla differenza fra un errore di previsione commesso nel 2006 e una proiezione aggiornata sull’anno corrente, che nulla garantisce risultare ex post più corretta della precedente. Pertanto, a fine 2007, esso potrebbe rivelarsi più ampio o più esiguo di quanto ora appaia. Ciò premesso, concettualmente tre sono gli usi alternativi possibili del tesoretto (e infinite le eventuali scelte intermedie): lasciarlo a disposizione del governo in una sorta di status quo; restituirlo agli italiani abbassando la pressione fiscale, come si fece quando si rimborsò il dividendo fiscale conseguito con l’eurotassa del 1997; spenderlo in addizionali esborsi pubblici. Ci sono almeno due buone ragioni per imboccare la prima strada: perché, per i motivi anzidetti, non è ancora accertato che il tesoretto sussista e la prudenza è opportuna; e perché il nostro Paese, da due anni vedendo addirittura in risalita il rapporto debito/Pil, già lontanissimo dal target europeo del 60%, saggiamente dovrebbe preoccuparsi di riportare su un sentiero di sostenibilità il debito stesso, alzando l’avanzo primario a breve termine fino al livello del 3% del Pil. È naturale che premano in questa direzione i partner dell’Unione, anche perché il debito pubblico italiano costituisce il 26,7% del totale dei 13 membri dell’eurozona (al pari di quello della Germania, che però illustra un rapporto al Pil molto minore, del 67,9%, a fronte del nostro 106-107%). La seconda opzione sul tesoretto comporta la riduzione delle imposte. Alcuni propongono tagli a favore delle imprese, per esempio contrazioni del cuneo fiscale nei settori bancari e assicurativi, discriminati nella manovra governativa dell’anno scorso, che proprio perciò hanno presentato, forse con qualche ragione, un ricorso alla Commissione europea, denunciando aiuti di Stato per i comparti privilegiati. Non sarebbe nemmeno insensato agevolare con ulteriori decrementi tributari lo sforzo di ristrutturazione che altre aziende italiane, operanti in mercati aperti alla concorrenza mondiale, stanno compiendo al fine di riguadagnare quote di commercio internazionale, tuttora declinanti. Ma anche le famiglie premono a giusto titolo per aver restituita una parte dell’aggravio fiscale subìto con gli interventi di risanamento deliberati nella seconda metà del 2006: se allora erano errate le affermazioni dell’esecutivo, secondo cui la stragrande maggioranza degli italiani sarebbe stata beneficiata dalla manovra (così non è, tenuto conto, oltre che delle variazioni nella curva delle aliquote Irpef e negli assegni familiari, anche delle maggiorazioni nei contributi sociali, nelle tasse sul consumo e nelle imposte locali), oggi diviene equo un rimborso tributario. Su una scelta di questo tipo insiste l’opposizione, da sempre propensa a diminuzioni del carico fiscale sulle famiglie, e tale decremento è comunque già stato promesso dall’attuale maggioranza ai contribuenti onesti, qualora si acclari che i più cospicui risparmi del 2007 sono attribuibili a minore evasione. La terza opzione, tendente a usare il tesoretto per espandere le uscite pubbliche, è probabilmente la più gettonata. Vi si distinguono due orientamenti fra loro molto diversi. Alcuni vorrebbero accrescere le spese per lo sviluppo, in primis quelle per la formazione, l’istruzione, l’università, la ricerca, come è scritto al primo punto del dodecalogo governativo di Caserta, e più in generale quelle sia per il capitale umano, sanità inclusa, sia per le infrastrutture materiali e immateriali. Altri, particolarmente nelle fila del sindacato e della controparte datoriale, vorrebbero aumentare i trasferimenti a favore di coloro che più abbisognano dell’assistenza, i poveri incapienti che nulla hanno guadagnato dalle riforme tributarie degli ultimi anni, i pensionati con trattamenti al minimo, in condizioni di vera indigenza, i senza lavoro privi di generale sussidio di disoccupazione, che già sono numerosi, ma tanti di più potrebbero diventare se si dessero meno protezioni agli insider e si consentisse di eliminare gli esuberi, fornendo però a questi una rete di sicurezza con adeguati ammortizzatori sociali, gli occupati negli enti inutili della pubblica amministrazione da chiudere, cui bisognerebbe estendere la cassa integrazione. Le esigenze prioritarie non sono necessariamente quelle che più si fanno sentire nel dibattito politico, dove ad esempio gli impiegati pubblici, reclamando dai prossimi contratti incrementi retributivi maggiori, come nel decennio passato, di quelli accordati ai lavoratori dei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono in grado di catturare l’attenzione mediatica per la capacità di portare nelle piazze un alto numero di persone, pronte a minacciare, se scontentate, di vendicarsi nelle future scadenze elettorali. in collaborazione con Radio Radicale |