12/10/2005 ore: 10:51
"40mila" La prima volta dei capi in piazza (1)
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Pagina 26/27 - Cultura la svolta 14 OTTOBRE 1980 - LA MARCIA DEI QUARANTAMILA TORINO ERA una mattina decisamente fredda, per essere solo a metà ottobre. Sotto un cielo grigiastro, plumbeo, ci siamo trovati nello spiazzo davanti al Teatro Nuovo. Io ero con una collega d’ufficio, un po’ isolate, perché all’epoca stavo in un ufficio Fiat distaccato, non nel palazzo di corso Marconi. Eravamo stupefatte dalla massa di gente. Avevamo trovato il teatro già pieno, la gente si accalcava fuori». Giusi Cortese aveva trent’anni il 14 ottobre 1980, quando una intirizzita Torino vive la giornata della Svolta. La giornata in cui i «colletti bianchi» alzano la testa, fanno sentire la loro voce, dicono basta. La manifestazione era stata annunciata dal Coordinamento dei capi e dall’Unione quadri: «Pochi scioperanti - dicevano in una loro lettera alle autorità - ci vietano il lavoro». La città sembrava vivere ripiegata i conflitti ai cancelli di Mirafiori o Rivalta. Un capo era morto d’infarto, mentre cercava di scavalcare il muro, una sera in via Biscaretti di Ruffia. La gente dei picchetti dava la caccia ai 200 crumiri che continuavano a produrre la «127». È in questo clima che dalle barriere della periferia la gente si concentra al Teatro Nuovo, dove fra gli applausi sta parlando Luigi Arisio, il coordinatore dei capi. «Devo dire che l’azienda aveva fatto intendere che era d’accordo. Che bisognava farlo. Ma a colpirmi era il fatto che accadeva per la prima volta. Era la prima volta che i colletti bianchi si muovevano, almeno qui a Torino, ma forse anche in Italia. Un ceto abituato a piegarsi stavolta alzava la testa. Volevo vedere come andava a finire. Ero spinta da questa curiosità, anche se avevo una situazione personale del tutto particolare, per desiderare un cambiamento». Giusi Cortese era una delle tante impiegate del mondo Fiat. Ma anche la moglie di un direttore di Mirafiori. «Mio marito viaggiava sempre sotto scorta. Una volta ci incendiarono la porta di casa. Con mia figlia di quattro anni che chiedeva perché ci fosse una tenda invece dell’uscio. Mio marito mi aveva fatto capire quali tensioni si vivessero in Fiat e soprattutto a Mirafiori. Gli avevano piazzato un cartello davanti all’ufficio: “Fascista sei il primo della lista”». «Eppure non ero andata lì, quella mattina, al Teatro Nuovo, per protestare, per agitarmi. Non so, forse mi sbaglio, magari i ricordi mi ingannano, ma non ero lì tanto per aderire quanto per vedere. Ero preoccupata, certo, sapevo la gravità dei problemi. O meglio, si temeva che se le cose fossero continuate così come andavano ci sarebbero state ripercussioni sul futuro. Insomma, avevamo alle spalle i “35 giorni”. Ma mi guardavo attorno, guardavo la folla, tutta quella gente incazzata, come dall’esterno, come se io non ne facessi parte». Quando il corteo si muove, lo fa in un’atmosfera surreale, niente fischi, urla, tamburi. Si marcia in silenzio, in testa un’auto con un cartello che dice: «Flm non ci rappresenti». Poi uno striscione: «La maggioranza silenziosa chiede il ripristino dei diritti civili». Un altro cartello si rivolge al sindaco: «Novelli, Novelli, fai riaprire i cancelli». Dalle file di torinesi che fanno ala al corteo qualcuno scaglia monetine, a significare che i manifestanti sono dei venduti. «Non rispondete alle provocazioni», ammoniscono i megafoni. «Non so se fossero proprio quarantamila. Mi pare che La Stampa il giorno dopo scrisse trentamila. Comunque una massa che nessuno si aspettava. Dicevano che molta gente si era aggregata al corteo lungo il percorso. Attorno a me vedevo i manifestanti raccolti in gruppi, secondo gli uffici, con facce determinate, con sguardi incazzati, perché chi più chi meno avevano tutti subìto qualche forma di violenza, dentro le officine. Si sentivano scandire slogan dai megafoni, tipo “No al sindacato padrone”. Andammo pian pianino, per corso Massimo e corso Marconi, poi girammo in via Nizza, avevo le scarpe con i tacchi alti, e mi facevano male i piedi». Man mano che la marcia prosegue, senza incidenti, s’ingrossano le file di chi vi assiste, dai marciapiedi e dai portici, nell’aria umidiccia. Si è rovesciato l’atteggiamento con cui l’uomo della strada guarda al conflitto industriale: resta isolato un capannello di operai che col pugno chiuso scandiscono: «Da Torino al Meridione un sol grido: occupazione!». Mentre non sono più un bisbiglio le voci favorevoli: «Finalmente!», «Era ora!». E si vedono negozianti rialzare le saracinesche che avevano abbassato per paura di disordini. Come dirà Luigi Arisio, scorreva la sensazione di qualcosa di concreto, «per uscire dalla nube purpurea delle chiacchiere populiste». «Io credo che un peso enorme - riflette Giusi Cortese - l’abbiano avuto le violenze. La maggior parte di quelli che marciavano erano uniti dalla solidarietà reciproca per le violenze subite, spintoni, pestaggi, lancio di bulloni. Io? No, o meglio, soltanto una volta. Ero in ufficio, sentii agitazione, dicevano che arrivava un’incursione degli operai della Meccanica di Mirafiori. C’era la leggenda che fossero aitanti, possenti e duri. Infatti arrivarono e divelsero la porta. Io e una collega ci riparammo dietro un mobile, per cui non si accorsero di noi. Urlavano “Tutti fuori”. Un collega, ex carabiniere, disse: “Non toccatemi, esco da solo”. C’era un dirigente piccolino e cicciottello, portava un pizzetto, che non voleva uscire: lo sollevarono di peso, con le gambette corte che raspavano l’aria. Fra di noi ne ridemmo per giorni. Sono quelle cose che si ricordano come i nostri genitori ricordavano la guerra». Oggi si attribuisce alla Marcia dei Quarantamila il senso d’una sconfitta da cui è iniziata la fase discendente della parabola del sindacato. Il giorno dopo, all’assemblea dei delegati al Cinema Smeraldo, per ratificare l’accordo che poneva fine alla lotta dei 35 giorni, i leader storici, da Lama a Benvenuto e Carniti, furono insultati e spintonati, dovettero essere difesi dal servizio d’ordine, volarono sberle. «Io non ero pregiudizialmente contro le organizzazioni sindacali, però non potevo non essere influenzata da mio marito, che senza scorta non poteva neanche comprarsi le sigarette. Perciò il sindacato era una minaccia. Qualcuno o qualcosa che non stavano facendo gli interessi dell’azienda. Questa consapevolezza riguardò in realtà un lungo periodo. Non dimentichiamoci l’atmosfera cupa e di paura prodotta dal terrorismo. Per cui quel 14 ottobre tutti, coscienti o meno, coltivavamo la speranza di una svolta». Ma Giusi Cortese aveva freddo e i piedi doloranti, a parte la preoccupazione che nel suo ufficio non c’era nessuno: «Perciò con la mia collega ci dicemmo che non sarebbe successo nulla di grave se ce ne fossimo andate. Facemmo dietro front, e tornammo a lavorare. Devo dire che non avevamo l’idea di aver partecipato a un fatto storico, anche se avevamo percepito che c’era stata la scossa».
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