12/10/2005 ore: 11:02

"40mila" Callieri: «Dissi ai miei scendete in strada» (3)

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    martedì 11 ottobre 2005

    Pagina 26/27 - Cultura


    la svolta
    14 OTTOBRE 1980 - LA MARCIA DEI QUARANTAMILA

    PARLA L’ALLORA CAPO DEL PERSONALE DELL’AZIENDA: «SENTIVO CHE LA CITTÀ ERA DI NUOVO CON NOI»
      Callieri: «Dissi ai miei scendete in strada
      Fate una catena di Sant’Antonio»

      Marina Cassi
        ALLA vigilia della marcia dei capi era assolutamente sicuro che sarebbe stata un successo e che avrebbe capovolto il fronte della lunga vertenza. Non è una ricostruzione del dopo, ma un impegno che Carlo Callieri aveva assunto con l’avvocato Agnelli. Allora. Nell’Ottanta del secolo scorso Callieri era il direttore del personale della Fiat, aveva 39 anni ed era arrivato a Mirafiori da un anno.
          Com’è andata?
            «L’avvocato era incuriosito. Il giorno prima della marcia mi chiama per chiedermi che cosa sarà quella manifestazione. Gli rispondo che ci saranno capi, ma anche operai contrari al blocco. Mi domanda:
            “Quanti?”. Rispondo: “Tantissimi”».
              Ottimismo della volontà?
                «Parlavo con colleghi, con la borghesia, con i commercianti. La Fiat magari si attira antipatie, ma quando è in difficoltà torna a essere simpatica».
                  Sente che cambia il vento; fa qualcosa per assecondarlo?
                    «Quando i capi mi informano che faranno la manifestazione al Nuovo dico che devono uscire per strada, andare a Palazzo Civico, farsi sentire. Sono perplessi, temono di essere pochi. Spiego: “Ciascuno di voi avrà dieci persone a cui rivolgersi che condividono l’idea di difendere l’azienda. E allora fate una catena di Sant’Antonio”».
                      Quando i capi sfilano tra lo stupore generale lei dov’è?
                        «A Roma al Boston per la trattativa con il sindacato. Le notizie arrivano via telex».
                          Che cosa pensa?
                            «Penso: è fatta. Poi in giornata arriva anche la decisione del procuratore Caccia di chiedere lo sgombero dei cancelli. D’altronde da parecchi giorni non ce la facevano più; per tenere i picchetti venivano i portuali da Genova».
                              Dopo le notizie da Torino vi sentite vittoriosi e che cosa fate?
                                «I confederali chiedono a noi di scrivere uno schema di accordo. Lo fa e molto bene Paolo Panzani dell’Unione industriale di Torino. La notte si firma: avevamo vinto. Avevamo degli extracosti per 18-20 mila persone; nessuna azienda può vivere con quel peso».
                                  Firmate un accordo senza cassa integrazione a rotazione. Perchè vi siete impuntati a non volerla?
                                    «Significa perdere la capacità di governo del ciclo produttivo. Con la gente che cambia gestisci una giostra non una fabbrica».
                                      Volevate 14 mila licenziamenti, dopo la crisi del governo Cossiga li ritirate e chiedete la cassa. Perché?
                                        «Con il governo eravamo al muro contro muro. Il ministro Foschi era eterodiretto da Donat Cattin che sosteneva “con la Fiat prima dai due calci nelle palle poi tratti”. Ritiriamo i licenziamenti come mossa per sdrammatizzare e recuperare credibilità: si sa che chi licenzia è odioso».
                                          Percepivate ostilità nella gente?
                                            «Con i licenziamenti era tornato nell’immaginario la Fiat feroce in una fase in cui invece avevamo già recuperato un rapporto con la città. Nel ‘79 la vertenza per il contratto era sfuggita di mano e si erano susseguiti blocchi stradali che i cittadini non avevano capito».
                                              Infatti è dopo quella tormentata estate che la Fiat licenzia 61 operai. Perchè?
                                                «E’ lunga da raccontare. Ero alla Fiat da venti giorni; mi chiamano una notte: i terroristi avevano ferito un capo. Corro a Mirafiori e trovo i capi scoraggiati, delusi che accusano l’azienda di non difenderli. In fabbrica succede di tutto, la situazione è drammatica».
                                                  Gli anni di piombo.
                                                    «Incendi, ferimenti dei capi, assalti alla palazzina durante i cortei, gruppi di autonomi infiltrati da terroristi, insomma un brodo di coltura per il terrorismo. E non solo: nei reparti si vendeva di tutto anche armi, pochi lavoravano. L’assenteismo era al 7-8 per cento».
                                                      E così dopo l’omicidio di Carlo Ghiglieno si arriva ai 61 licenziamenti.
                                                        «Cerchiamo di sostenere i capi e proteggerli, collaboriamo con i carabinieri del generale Dalla Chiesa. Riusciamo a definire una lista di persone incompatibili con la fabbrica e l’incolumità delle altre persone».
                                                          A che cosa serve metterli fuori?
                                                            «Cambia il clima. Gli operai ricominciano a lavorare e si capisce che abbiamo 14 mila esuberi».
                                                              A quel punto decidete i licenziamenti. È una rivalsa nei confronti del sindacato?
                                                                «Nel nuovo contratto dei meccanici era stata inserita per la prima volta la mobilità; decidiamo di usare quello strumento allora rivoluzionario e utilizzato in seguito migliaia di volte».
                                                                  La storia poi va come va. Perchè secondo lei il sindacato, dopo il ritiro dei licenziamenti, ha proseguito nella lotta a oltranza?
                                                                    «Perché il sindacato era la Quinta Lega fatta di gatti che sapevano solo arrampicare sul palo del telefono, sordi e ciechi. Già sui 61 c’era stata una spaccatura con i confederali, ma non era servita a impedire che il sindacato corresse alla sconfitta».