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Assemblea Intersettoriale Unitaria Roma, 22 novembre 2023. Relazione di Fabrizio Russo

Care compagne e amiche, cari compagni e amici, ben trovati.

Ci siamo! Siamo nel pieno della mobilitazione delle categorie del terziario, di Filcams, Fisascat e Uiltucs.

Noi crediamo, in assoluta buona fede, che i passi che abbiamo compiuto e stiamo compiendo non solo siano necessari, ma inevitabili e soprattutto giusti.
Ci attendono settimane difficili, ma decisive.
Più volte abbiamo dichiarato che dalla qualità, dalla civiltà, dall’umanità del lavoro dipendono la dignità di milioni di persone e la democrazia nel nostro paese.
Vedete, credo abbia colpito molte e molti tra noi, il “minuto di rumore” che migliaia di giovani hanno scelto di fare ieri nelle scuole e nelle piazze, al posto del tradizionale “minuto di silenzio”.
Non solo per il turbamento e la pena che ci dà l’ennesima morte atroce e assurda – quella di Giulia, Giulia Cecchettin, ma per il segnale, la forza, il senso di quel gesto.
Non si tratta di una trovata o un espediente per far parlare di sé. Si tratta di un capovolgimento di paradigma, di un atto forte, come se qualcuno cambiasse all’improvviso il tuo angolo visuale, capovolgendo l’immagine, o invertendo un cannocchiale.
Quel “rumore” di una giovane piazza è in realtà una forma di armonia spontanea e intonata, un “no” grande e semplice contro la violenza e la discriminazione di genere, una affermazione di intelligenza collettiva che ci interroga e ci stimola a pensare.
E sorprende anche noi, che nelle piazze ci siamo nati, positivamente sorprende, perché la protesta e il rumore non escludono l’amore, il turbamento, l’appello di umanità. Anzi innalzano e precisano il livello del messaggio, ci fanno capire che i giovani ­– proprio quelli che la pubblicistica corrente vorrebbe un po’ apatici e assenti – invece ci sono, ci sono eccome. E si sentono, e prendono la parola, manifestano i loro sì e i loro no.
Il rumore di questi giovani, allora, ci deve seguire e incoraggiare, deve essere un esempio, una guida per noi che adesso scendiamo in piazza e in mobilitazione.
Perché anche noi, come loro, non andiamo in piazza a rappresentare o a difendere posizioni o interessi acquisiti, anche noi ci andiamo per cambiare paradigma, per guardare avanti, per dire che un altro mondo non solo è necessario, ma irrinunciabile.
Perché se non lo facessimo con questo spirito di cambiamento e di provocazione, allora vorrebbe dire che non abbiamo capito nulla di cosa significa, quel rumore.
Di cosa richiede, quel rumore.
Di cosa annuncia.
E quindi, vi prego, rispondiamo oggi a queste giovani e a questi giovani, con un nostro grazie, e con un nostro applauso.

Sì, lo possiamo dire: la nostra non è certo una mobilitazione improvvisata, estemporanea, dell’ultima ora; è un approdo che non avremmo voluto, al quale ci hanno costretti ma rispetto al quale siamo pronti, come ci siamo detti a Bologna, alla nostra ultima assemblea unitaria intersettoriale delle delegate e dei delegati dello scorso luglio.
Alle controparti, alle associazioni datoriali, alle imprese sono stati ampiamente concessi tutti i tempi e i modi per ravvedersi, per rinsavire, per assumersi finalmente le loro responsabilità.
Ebbene, da parte loro, nulla di nulla, ne abbiamo dovuto prendere mestamente atto.

Forse costoro hanno pensato, per incompetenza o per un errato calcolo delle forze in gioco, che ci stancassimo, che procrastinare corrispondesse a logorare e a fiaccare la rappresentanza.
Bene, qualunque cosa abbiano pensato, o stiano ancora pensando, si sbagliavano: la loro inconcludenza ci rende più forti e tenaci, ci rende più presenti, ci rende, se possibile, ancora più determinati.
Se si illudevano di ingannarci e di farci arretrare, se pensavano che la rappresentanza di milioni di lavoratrici e di lavoratori potesse essere oltraggiata, insolentita, mortificata, se pensavano che le poche briciole cadute dal tavolo della trattativa bastassero a placare la nostra fame di giustizia, ebbene, se pensavano tutto questo, e qualunque altra cosa avessero pensato, si sbagliavano!
Ci hanno resi più forti! E adesso vedranno, adesso toccheranno con mano cosa ha generato la loro irresponsabilità e la loro mancanza di etica del lavoro.

I nostri comunicati, soprattutto quelli degli ultimi giorni ricostruiscono, ancora una volta, nel dettaglio la gravità della situazione.
Questa è una vertenza che – quante volte abbiamo provato a farlo comprendere! – per il numero di lavoratrici e di lavoratori coinvolti, per la portata, per le dimensioni, per le implicazioni, non ha precedenti né raffronti.
Quando non si rinnovano per un lasso temporale così rilevante tanti e tali contratti nazionali di lavoro, e la dilazione di anno in anno diviene la regola, non soltanto si mettono in discussione valore, funzione e ruolo della contrattazione nazionale, questione già di per sé allarmante, ma si compromettono interi assetti relazionali, essenziali per la tenuta economica e sociale del nostro paese.
Questo è il primo dato di sintesi rispetto a quanto accaduto tra la scorsa tornata contrattuale e quella corrente: il sistema relazionale del terziario nel suo complesso, sempre più frammentato, sempre più disarticolato, sempre più scompaginato, ha confermato, una volta per tutte, di non essere all’altezza della situazione.
Aziende, grandi gruppi, multinazionali - del commercio, della ristorazione, della distribuzione, dei servizi, del turismo - nel corso di decenni, contando innanzitutto sui propri dipendenti, hanno potuto gestire trasformazioni, cambiamenti, riorganizzazioni, hanno potuto edificare, definire e consolidare la propria presenza nel nostro mercato, hanno potuto assicurarsi utili frequentemente eclatanti.

E adesso, in una fase complessa, difficile, articolata come quella attuale, nella quale avrebbero dovuto rivestire un protagonismo in primo luogo in termini di responsabilità sociale, e avrebbero dovuto riservare finalmente attenzione alle centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che hanno concorso in modo determinante alla loro affermazione, hanno invece deciso, scientemente, di ripiegare, di abdicare al loro ruolo, mostrando le loro fragilità, le loro debolezze, ma soprattutto la loro grettezza.
La nostra non è retorica, è constatazione dei fatti: è stupefacente come in questi anni alla crescita culturale e di sensibilità umana di milioni di lavoratori, con cui abbiamo parlato e parliamo ogni giorno, abbia corrisposto una involuzione così drammatica della cultura e del linguaggio della classe imprenditoriale italiana e dei suoi rappresentanti.
Avremmo voluto misurarci con avversari in grado di seguire un ragionamento, di trattare su un piano di realtà condivisa, di articolare un pensiero.

Avremmo pensato di poter ingaggiare nella lotta, in un gioco delle parti che è anche democrazia reale e crescita comune, interlocutori magari anche duri, ma leali.
Invece costoro hanno solo mostrato una totale mancanza di grammatica della civiltà e delle relazioni umane.
Quando hanno proposto qualcosa, hanno balbettato quattro cifre e avanzato proposte alle quali loro per primi non credevano.
Li abbiamo visti sedersi ai tavoli della trattativa, per poi sfilarsi e sottrarsi ogni volta che si intavolava un ragionamento e una proposta.

Per mascherare la loro inadeguatezza hanno tentato di affidarsi ai sotterfugi e alle astuzie tattiche.
Per evitare di dare risposte hanno preso tempo.
E ancora tempo.
E ancora tempo.

Ma il tempo, il loro tempo, è finito. Adesso comincia il nostro!
Perché è davvero evidente che in questo paese qualcosa non va e, se non ci mettiamo mano noi, non possiamo pensare, non possiamo più aspettarci che lo facciano loro.

È anche questo, soprattutto questo, che imputiamo a Confcommercio, a Confindustria, a Confesercenti, a Agci, a Aica, a Ancc, a Angem, a Confcooperative, a Federalberghi, a Federdistribuzione, a Federterme, a Federturismo, a Fipe, a Legacoop, per citarne solo alcune.
E ancora, a Autogrill, a Conad, a Coop Alleanza 3.0, a Camst, a Carrefour, a Dussman, a Elior, a Eurospin, a Esselunga, a H&M, a Lidl, a Marriott, a McDonald’s, a Zara, a Sodexo, a Starhotels - elenco evidentemente molto parziale, ma piuttosto esemplificativo.
A loro imputiamo di essersi voltati dall’altra parte, di non aver avuto, di non avere il senso del limite, di essere intenzionati a rendere più insostenibili di quanto già non lo siano le condizioni di lavoro dei loro dipendenti. 

Lo abbiamo precisato che lo avremmo fatto, che avremmo fatto nomi e cognomi, che avremmo dettagliato le ragioni sociali, i marchi, i brand di chi ha responsabilità precise, determinate, circostanziate, rispetto alla degenerazione di questa vertenza, sarà una parte dell’attività alla quale ci dedicheremo in queste settimane, in questi mesi di mobilitazione, quella riconducibile a campagne di comunicazione in tema di reputazione datoriale e aziendale.
La comunicazione in termini complessivi, lo abbiamo detto, sarà, ancora di più nei prossimi mesi, una leva fondamentale nel rapporto tra di noi, nel rapporto con le lavoratrici e i lavoratori.
Considerata la delicatezza della situazione, dovremo essere nelle condizioni di comunicare tempestivamente ed efficacemente informazioni e aggiornamenti e di fornire tutte le delucidazioni, le spiegazioni, i chiarimenti del caso su ogni singolo passaggio della vertenza, in coerenza con l’impegno che abbiamo definito, di affrontare la fase di mobilitazione in termini di partecipazione, condivisione e coinvolgimento i più ampi possibili.

È questa la traiettoria che stiamo tracciando verso il 22 di dicembre, la giornata che è stata individuata per lo sciopero nazionale. Un venerdì, per consentire anche alle addette mense, a chi presta attività nella ristorazione collettiva di prendere parte, fattivamente, alla protesta, un’unica data che ci tenga insieme, che ricomprenda i diversi settori, i differenti comparti, che tenga insieme tutte e tutti noi.

Sciopereranno le lavoratrici e i lavoratori del commercio, della distribuzione, della ristorazione collettiva e commerciale, della filiera del turismo, in considerazione di uno schema di mobilitazione che è stata inevitabilmente progressiva che stiamo gestendo con la conseguente gradualità.
Dalla rottura dei tavoli del terziario, passando per quello della ristorazione, arrivando al turismo, per poi procedere coesi verso lo sciopero.

Sullo sciopero, un inciso – importante -, per chiarezza: lo sciopero non è il capriccio di qualcuno, non è una frivolezza, non è una stramberia, non è nemmeno una stravaganza, una bizzarria, una stranezza, lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito! Disciplinato, affermato, preservato dalla nostra carta costituzionale.
Nell’ordinamento giuridico italiano, fino al 1889, lo sciopero è stato considerato un reato; dopo l’unità d’Italia il Codice penale dell’epoca puniva «tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa».
Dopo una breve parentesi di qualche anno, con l’avvento del fascismo si è tornati alla repressione penale dello sciopero ed è soltanto dopo la liberazione, con la definizione della nostra costituzione nel ’48 e la strenua, tenace, valorosa azione della nostra Corte Costituzionale che si è sancito a tutti gli effetti il diritto di sciopero.

Ecco, questo per dire: non torniamo indietro, non ritorniamo agli anni bui della nostra storia, non voltiamo lo sguardo dall’altra parte, non facciamo finta di nulla, non sottovalutiamo, non passiamo sopra la gravità, il peso, la portata di quanto parte rilevante della politica e delle istituzioni va dicendo da qualche giorno a questa parte. 

 2024: certo non dichiareremo noi che il 2024 dovrà essere l’anno dei rinnovi dei contratti, perché, pur con notevole e ingiustificabile ritardo, avrebbe dovuto esserlo il 2023.
Non lo dichiareremo ma abbiamo visto che, per colpa grave e reiterata della parte datoriale, il 2023 è stato l’anno dei mali estremi, per cui passiamo ora, tutte e tutti, agli estremi rimedi.
No, non è il tempo delle dichiarazioni, è il tempo dell’azione.

2024: nella sostanza è questo l’obiettivo, è questo il fine che ci prefiggiamo con la mobilitazione, con la proclamazione degli stati di agitazione, con le dichiarazioni di sciopero, con le iniziative già programmate da qui alle prossime settimane: riavviare le trattative a condizioni evidentemente differenti rispetto a quelle che ne hanno caratterizzato l’andamento fino agli ultimi incontri e che ci hanno costretto alla rottura.

Con questo spirito, e con questo senso di concretezza e di urgenza, affrontiamo, affronteremo i prossimi mesi.

Lo sappiamo bene! Per come siamo fatti siamo tra i primi ad averlo compreso: la solidarietà, la vicinanza, le lotte, le rotture, le mobilitazioni, gli stati di agitazione, gli scioperi non si testimoniano solo su Twitter, su Facebook o sugli altri social, anche tra quelli rivolti ai più giovani; si scende in piazza e ci si conta, ci si misura e si sfida, e magari si vince pure, e lo si fa camminando fianco a fianco con le migliaia di altre lavoratrici e lavoratori, compagne e compagni, amiche e amici, colleghe e colleghi, dei diversi settori, dei vari comparti, pur nell’applicazione di differenti contratti nazionali di lavoro.

È questo l’approccio con il quale ci apprestiamo a organizzare e a partecipare alla giornata di sciopero del 22 dicembre.

Diciamo solo e credetemi, senza alcuna volontà rivendicatoria, che ci aspettiamo, dove e come possibile, altrettanta e reciproca coesione e vicinanza da parte dei lavoratori di altre categorie, con la certezza che capiscano che la nostra lotta è la loro, che il nostro avanzamento vorrà dire una rimodulazione e una ridefinizione di tutto, ma proprio tutto il lavoro in Italia.
In questi momenti non si ragiona di “noi o loro”, “noi e loro”, e neppure di “noi con loro”. Si ragiona solo con un grande e orgoglioso “noi” che comprende e tiene insieme, come una ricchezza irrinunciabile e una forza, tutto il sindacato.

2024, dicevamo.

2024 anno di verifica della forza e della tenuta della nostra proposta.

2024 come un punto di arrivo del lavoro di tutto questo anno, e punto di partenza di una nuova fase.

2024, anno della svolta.

Ci aspettano settimane difficili, abbiamo detto. Ma noi non facciamo rappresentanza perché è facile. La facciamo perché è difficile e appassionante, sacrosanta, giusta.
La facciamo perché siamo arrabbiati ma fiduciosi e forti.
La facciamo perché, come ci stanno indicando i più giovani che abbiamo visto nelle piazze e nelle scuole, non è questa l’ora di rimanere in silenzio!

E allora a tutte e a tutti, buon rumore e buon lavoro!