martedì 22 novembre 2005


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    I NUOVI SENZATETTO CENTINAIA DI OSPITI NELLA STRUTTURA DI VIALE ORTLES

    La busta paga non basta più
    ultimo rifugio, il dormitorio

    Milano, tra colletti bianchi e operai che non riescono a pagare un affitto

    reportage
    Fabio Poletti
      MILANO
      Benito lavora come falegname. Agostino incolla i bolli dell’Iva sulle radioline. Santo è alla catena di montaggio. Alla sera quando finiscono il turno rientrano a casa, viale Ortles 69, Istituto ricoveri notturni, il dormitorio gestito dal Comune, la «casa dei barboni» secondo i milanesi.

      «Ma io non sono un barbone», si arrabbia Benito che ha i capelli bianchi e da quasi vent’anni tutte le notti viene qui dove un letto costa un euro in cameroni da otto, cinquanta centesimi in più se si vuole la stanzetta con due brande. «Sono tanti quelli come lui. Sempre di più. Il trenta per cento dei nostri ospiti. Uomini anche di mezza età: si separano, hanno un lavoro ma guadagnano troppo poco per permettersi una casa, anche in affitto», racconta un operatore che in quindici anni ha visto di tutto. Prima a fare la fila erano tossici ed etilisti, poi sono arrivati gli extracomunitari, adesso sono in aumento gli italiani, gente che lavora e non guadagna nemmeno 600-700 euro al mese, troppo poco per vivere in una città come Milano dove gli affitti vanno sempre più su.

      «Ho capito che non ce l’avrei fatta quando ho iniziato a convertire quello che comperavo in giorni lavoro. Mi sono accorto che non riuscivo ad arrivare alla fine del mese. Poi ho dovuto rinunciare all’appartamento. O mangiavo o pagavo le bollette. Adesso sono qui e aspetto una casa popolare», dice un altro, con la rabbia di chi si è trovato a essere un numero nelle classifiche Istat, un numero che anno dopo anno si ingrossa. Ufficialmente non sono nemmeno disoccupati, ma è pure peggio. Li chiamano working poors, i poveri che lavorano e che finiscono al dormitorio di viale Ortles, negli alloggi dell’Opera San Francesco o a bussare alla porta della Caritas. Sono diventati talmente tanti che in alcune città hanno dovuto inventare indirizzi virtuali, perchè non è facile mantenere un lavoro se sui documenti c’è scritto «senza fissa dimora» o la notte la passi al dormitorio. E così a Roma settecento persone abitano in via Modesta Valenti, se esistesse davvero e ci fosse una targa dovrebbero scrivere: «Clochard, morta alla stazione Termini, 1982».
      Altre mille a Napoli risultano risiedere in via Alfredo Renzi. Milletrecento a Firenze in via Lastrucci. Poi ci sono quelli che a Bologna vivono in via Senza tetto o a Torino in via Casa comunale.

      «Ci vuole niente per finire così...», ammette Giuseppe Sala, responsabile della Fondazione San Carlo della Caritas che gestisce 300 posti letto nei pensionati e 150 alloggi per famiglie in difficoltà. «I nostri ospiti sono tutti lavoratori, tutti alla ricerca di una casa popolare che non c’è. A Milano mancano 60 mila abitazioni a canone sociale. Il fenomeno è in espansione. Quando bussano da noi le hanno tentate già tutte, il processo è lentissimo». La china è sempre quella: una separazione, la casa che va più spesso alla moglie e ai figli, il reddito che rimane stabile e il prezzo di vivere che aumenta. «Una volta una delle condizione di emarginazione, una delle cause di perdita del lavoro era l’etilismo. Adesso è il contrario: chi si trova con un lavoro ma senza casa, si rifugia nell’alcol e non fa che peggiorare la situazione», racconta Sabina Princigalli dell’Opera San Francesco, 2500 pasti al giorno alla mensa di corso Concordia. «Una volta venivano alcolisti e tossicodipendenti. Poi c’è stata la valanga di extracomunitari. Adesso sono in aumento le persone comuni, autisti dell’Atm, guardie giurate, operai anche specializzati. Guadagnano troppo poco per vivere, ma quando si rivolgono a noi hanno superato tutte le vergogne».

      E allora capita di trovare in fila gente comune, giacca un po’ lisa e cravatta, occhi bassi e poca voglia di raccontare. «Il lavoro ce l’ho ma per risparmiare devo venire qui a pranzo. Una casa mia ce l’avevo, ma adesso ci sta mia moglie con un altro...». Al pensionato Belloni di viale Fulvio Testi gestito dalla Caritas, prima ancora di sapere chi sei, il centralinista chiede se si desidera un posto letto. La permanenza è garantita per un anno, in casi eccezionali diventano due, ma alla fine fanno i salti mortali per non lasciare nessuno per strada. Che di lavoratori finiti a dormire in macchina ce ne sono fin troppi.

      Mario dice che ha l’auto parcheggiata in viale Fulvio Testi: «Lavoro nei cantieri, aspetto che si liberi un posto in un dormitorio e che arrivi la casa popolare». Un altro, autista dell’Atm, «abita» in un’Opel Astra in via Palmanova: «Ho solo i soldi per mangiare». Davanti al dormitorio di viale Ortles c’è un furgone con i vetri sfondati, nel bagagliaio si vedono un po’ di coperte e un materasso. Tra poco verrà inaugurato un nuovo padiglione dell’Istituto ricoveri notturni, altri 150 posti letto. Da due anni l’assessore ai Servizi sociali, Tiziana Maiolo, sogna di aprire una casa per i clochard, con più posti letto per quelli che non sanno dove dormire.

      «Però c’è chi ha paura di far sapere in giro dove dorme. Piuttosto che rivolgersi al Comune scelgono gli enti caritatevoli», racconta ancora Sabina Princigalli dell’Opera San Francesco, che deve affrontare almeno quattro casi al mese di gente che ha un lavoro ma non una casa. «Ci sono persone che hanno anche mille euro di reddito e non sanno dove andare ad abitare. Persone sole, ci ha scritto una ragazza giovane, lavora in banca e non sa dove sbattere la testa...», spiega Silvana Migliorati del Siloe della Caritas, gli archivi oramai pieni di richieste di aiuto da questi homeless con il colletto bianco, gli ultimi invisibili della metropoli.