6 dicembre 2002
 
Pagina 1 e 3 - Economia
 
 
IL RETROSCENA
E Fini cercò di spaccare
il fronte dei tre segretari
"L´accordo separato" tra governo e azienda rinsalda il "no" del fronte sindacale al piano Fiat
Quella telefonata di Fini a Fresco ricompatta Pezzotta ed Epifani
          Un ministro: "Abbiamo giocato alla roulette e abbiamo perso"

          ENRICO ROMAGNA-MANOJA

          ROMA - «Sulla Fiat abbiamo giocato alla roulette e abbiamo perso», dice sconsolato un ministro mentre lascia Palazzo Chigi dove ieri sera si è consumata una doppia sconfitta per il governo. Dopo aver tergiversato per mesi, preso due volte a schiaffoni l´azienda per poi chiudere con quello che aveva tutta l´aria di essere un accordo fatto sopra la testa di Cgil, Cisl e Uil, il governo è riuscito in un colpo solo a ricompattare i sindacati, che aveva spaccato con l´articolo 18 e con il Patto per l´Italia, senza riuscire a disinnescare le pericolose tensioni sociali scoppiate in tutto il paese.
          «Un bel capolavoro, non c´è che dire» ha sussurrato ad un ministro un sindacalista della Uil seduto al tavolo delle trattative. La partita Fiat passerà probabilmente alla storia come una delle peggiori mai giocate da un governo.

          Ricapitoliamo i fatti. Il primo campanello d´allarme della crisi in cui si stava infilando il Lingotto suona quasi sette mesi fa, a maggio, quando le banche creditrici di Torino firmano un accordo che, di fatto, pone sotto la loro regìa il risanamento finanziario del gruppo. In sostanza le banche rinnovano i crediti alla Fiat a condizione che l´azienda metta a punto un piano di dismissioni per ridurre l´indebitamento salito a livelli non più sopportabili. Il governo fa finta di nulla fino ai primi di ottobre quando la Fiat annuncia il suo drastico piano di ridimensionamento del personale e di abbattimento della capacità produttiva. A quel punto, svegliato di soprassalto dalla rivolta in Sicilia dove la Casa delle Libertà governa con il 100% dei seggi, Silvio Berlusconi decide che è ora di intervenire. Convoca nella sua villa ad Arcore Paolo Fresco e Gabriele Galateri. «Quello - ricorda oggi un sottosegretario leghista - fu un doppio errore: Berlusconi e Tremonti volevano umiliare la Fiat e giocavano con l´idea di far entrare la Finmeccanica nel suo capitale per poter dire la loro nella gestione dell´azienda; e sbagliarono anche Fresco e Galateri, probabilmente attirati dall´idea di un´iniezione di soldi pubblici nelle esangui casse del gruppo».
          La soluzione dell´ingresso dello Stato nel capitale Fiat fu bocciata da quasi tutti, anche se al sindacato non dispiaceva affatto. Il governo sembrò a quel punto abbandonare il progetto che, in realtà, ha continuato ad accarezzare non foss´altro perché a Berlusconi non sembrava vero potersi presentare agli italiani come l´uomo che aveva salvato l´azienda di Gianni Agnelli, il re degli imprenditori di cui teneva la foto sul comodino, come l´immagine della Madonna. Da quel momento in poi la confusione è regnata sovrana: la trattativa si è tenuta di volta in volta sotto la guida di Fini, poi di Marzano, poi ancora di Maroni. Il tutto condìto con la clamorosa gaffe del Cavaliere sul "management da cacciare" e sul marchio Fiat da rimpiazzare con quello della Ferrari. All´insegna dell´ormai solito "ghe pensi mi".
          Che i margini della trattativa fossero strettissimi non era un mistero per nessuno. «La Fiat - spiega un banchiere del Nord - ha tre fucili puntati contro: quello di Moody´s (che potrebbe declassarla a "titolo-spazzatura"); quello delle banche (che premono per la cessione dei "gioielli di famiglia"); e quello della General Motors (che non vede l´ora di trovare un appiglio legale per tirarsi fuori dal guazzabuglio italiano nel quale si è infilata)». Il governo, preoccupato per le proteste esplose in tutta la penisola e per l´allarme su possibili infiltrazioni terroristiche, non ha saputo far meglio che tirare fuori, allo scadere del novantesimo minuto, una proposta che avrebbe dovuto preparare con più avvedutezza: i soliti incentivi all´auto, un po´ di soldi per la ricerca e la formazione, una legge ad hoc per accompagnare fino alla pensione i lavoratori che non sarebbero mai più rientrati in fabbrica. «Fini e Letta, dopo il vertice di mercoledì sera - racconta un ministro centrista - hanno chiamato Fresco e Galateri e gli hanno detto: questa è la nostra proposta, vi sta bene? I vertici del Lingotto hanno chiesto alcune garanzie sulla distribuzione della cassa integrazione e sulla mobilità, e l´accordo si è fatto».
          L´ultimo errore di questa tragica vicenda - perché da lunedì 5.600 lavoratori, anziché prepararsi a festeggiare il Natale, entreranno nella lunga quaresima delle buste-paga dimezzate, con l´incubo di non sapere cosa succederà loro quando si ripresenteranno in fabbrica - è stato proprio presentare al sindacato un accordo già fatto con la Fiat. Per Cgil, Cisl e Uil, a quel punto, era impensabile accettare un´intesa che, pur mitigando l´impatto sociale dei tagli all´occupazione, ignorava totalmente le richieste dei lavoratori. L´incredibile entrata a gamba tesa del prudente Gianfranco Fini che con una nota accusava la Cgil ed il suo "massimalismo" di impedire l´accordo, è stato solo un maldestro tentativo di spaccare il sindacato replicando lo scontro sull´art. 18 e sul Patto per l´Italia. Non è servita nemmeno la successiva entrata in campo di Berlusconi ("la Cgil ha fatto politica") a smuovere Savino Pezzotta al quale va dato atto di aver smentito con i fatti le accuse di chi lo voleva troppo contiguo al governo. «Stavolta - ironizza il leader della Cisl - l´accordo separato lo hanno fatto loro. Tra governo e azienda».
          La ritrovata unità sindacale è comunque una ben magra consolazione. La rottura sul caso Fiat, con tutte le tensioni sociali che innescherà, è l´ennesimo segnale di allarme per un governo che sembra aver completamente perduto la bussola della politica economica.